Giovedì 24 novembre 2016
Costantinopoli e il suo imperio. Prospettive veneziane sulla statualità ottomana (secoli XVI-XVIII) Coordinatore: Marco Giani
Membri: Marco Giani, Cristina Setti, Umberto Signori
Se l’osservazione dell’altro fu sempre fondamentale per uno stato economicamente fondato sul commercio e geograficamente chiamato allo scambio come la Repubblica di Venezia, tale necessità divenne stringente in età moderna, allorquando la Serenissima dovette sempre di più accettare il proprio essere uno stato mediocre entro un quadro europeo di stati nazionali e sovra-nazionali. Fra questi ultimi, aveva un posto di riguardo l’Impero ottomano, sia per questioni di vicinanza geografica sia per i vari rapporti economici intrattenuti con esso: i veneziani dovevano conoscere con chi avevano a che fare. Vari documenti ci testimoniano questa osservazione, dalle Relazioni a Costantinopoli, ai dispacci dei magistrati d’oltremare fino alla corrispondenza tra i baili e i consoli.
In particolare, il panel vuole indagare, con tre interventi capaci di coprire buona parte dell’età moderna (da inizio XVI a inizio XVIII secolo) come gli osservatori veneziani descrivevano il rapporto fra la corte del sultano a Istanbul e i vari ufficiali locali disseminati lungo tutto l’Impero. L’ipotesi di ricerca è che i veneziani ricercassero nell’osservazione e poi pretendessero nella pratica l’applicazione di una dinamica di sostanziale replica degli ordinamenti centrali nelle province suddite, secondo modalità pratiche simili a quelle a cui essi stessi erano abituati nel governo dei propri domini da Terra e da Mar.
Come venivano descritti dal punto di vista veneziano i rapporti gerarchici intercorrenti fra gli ufficiali imperiali, soprattutto fra quelli dislocati nelle periferie dell’Impero e quelli residenti alla Porta? In caso di rapporti problematici con l’interlocutore locale ottomano, come avveniva il ricorso all’autorità imperiale superiore, al fine di sbloccare la situazione? Tale ricorso era l’unico strumento di risoluzione dei problemi, o ve n’erano di altri? Il confronto con il funzionamento dello stato veneziano era implicito, o veniva esplicitato da osservatori che si rivolgevano ad ascoltatori e/o lettori anch’essi sudditi della Repubblica? Vi è una differenza fra le osservazioni presenti in testi più strutturati come le Relazioni dei baili e altri più legati alla dimensione della prassi decisionale, quali dispacci e deliberazioni? Sono osservabili delle differenze significative lungo l’arco temporale considerato?
Tali le domande a cui il panel vuole cercare di rispondere, nel quadro di un crescente interesse storiografico relativo ai percorsi intrapresi in epoca moderna dagli attori periferici (sociali e istituzionali) che intendevano sfruttare a vantaggio proprio i margini d’azione lasciati dalle autorità centrali.
Marco Giani, La Porta e il grandissimo stato di questo Signore: i rapporti gerarchici all’interno dell’Impero ottomano nelle Relazioni da Costantinopoli veneziane cinquecentesche
Le relazioni degli ambasciatori veneti sono considerate da sempre una miniera di materiali per gli studiosi, non solo per la loro completezza e vastità ma anche per l’acume politico e per la profondità d’analisi con le quali gli inviati della Repubblica di Venezia erano capaci di descrivere lo stato presso il quale erano mandati. Fra di queste, spiccano quelle scritte dai baili (ma non solo) da Costantinopoli: limitando il campo d’analisi a quelle stese lungo il XVI secolo, sarà interessante indagare questo corpus di relazioni alla ricerca di tutti quei passaggi nei quali i veneziani descriveranno l’interazione fra la corte di Istanbul (la Porta) e i vari ufficiali minori dislocati lungo il vastissimo Impero ottomano. Come i veneziani descrivevano tale rapporto (funzionante, ottimale, difficile, discontinuo, etc.)? Gli eventuali dissidi fra i comandi centrali e gli ufficiali periferici restii ad obbedire venivano censurati, o al contrario sottolineati? In questi casi, a quale dei due poli veniva data la responsabilità, e con quale dei due si tendeva a simpatizzare? Nel caso poi di dissidi fra gli inviati veneziani e le autorità periferiche, quanto spesso e come si ricorreva all’autorità centrale (sultano, pascià, Divan, etc.)? Nel rispondere a tali domande si utilizzerà come approccio metodologico prevalente quello linguistico: si cercherà cioè di capire con quali parole o espressioni italiane i veneziani cercavano di spiegare al loro uditorio (il doge e il Senato della Serenissima) la realtà ottomana che avevano avuto davanti ai loro occhi durante il periodo della missione diplomatica.
In particolare, si farà attenzione in primis ai richiami ad elementi veneziani o italiani usati come pietra di paragone per spiegare la realtà “altra”; in secondo luogo alle glosse linguistiche esplicite di parole straniere; infine agli elementi di continuità e di discontinuità emergenti all’interno del corpus.
Cristina Setti, Frontiere d’acqua: ibridazioni giurisdizionali e costruzione dell’alterità ottomana nelle comunicazioni tra il Levante veneziano e Costantinopoli (secoli XVI-XVII)
Il mio intervento intende evidenziare i margini d’azione dei governanti veneziani delle Isole Ionie a partire dalla documentazione prodotta dalla magistratura itinerante dei Sindici Inquisitori in Levante tra fine ‘500 e inizio ‘600, con particolare riferimento al problema del conflitto e della coabitazione tra sudditi greco-veneti e sudditi e officiali dell’area balcanica dell’Impero ottomano. Il braccio di mare che separava questa zona dai reggimenti di Corfù, Zante e Cefalonia univa infatti due milieu sociali e istituzionali dai confini assai porosi, che in questo periodo di relativa pacificazione mettevano a dura prova tanto gli accordi diplomatici tra la Serenissima e la Porta quanto l’efficacia dei sistemi normativi interni ai due soggetti politici. Se da un lato la sfera delle Ahdname (“Capitolazioni”) sin dal 1518 aveva contribuito all’edificazione di uno “spazio legale” di “sudditi e sovrani”, che di fatto ridimensionava le differenze culturali e religiose in nome di comuni interessi commerciali, dall’altro tale area di interscambio era resa fragile dalla tensione vigente tra due differenti culture di governo, una regionale e repubblicana, l’altra imperiale e sovranazionale.
Partendo da alcuni case studies emergenti dai dispacci dei Sindici Inquisitori e dei rettori loro contemporanei, metterò in luce due dinamiche parallele e complementari: in primo luogo le ambiguità e le tensioni emergenti dall’incontro/scontro tra magistrati veneziani e governatori-corsari delle regioni ottomane, influenzate a loro volta dal flusso di informazioni e richieste trasmesso ai primi dal bailo in Costantinopoli; in secondo luogo, l’interferenza e la reciproca pressione tra il canale diplomatico, dello stesso bailo, e il canale giurisdizionale alternativo, da questi all’occorrenza invocato o criticato, aperto dalle visite dei Sindici Inquisitori in Levante. Quest’ultimo canale può configurarsi allora come punto d’osservazione e comparazione tra la prassi di governo veneziana e quella ottomana, fornendo un’immagine parziale ma significativa del relazionarsi di due diverse mentalità politiche.
Umberto Signori, Il ruolo delle risorse legali prodotte da Costantinopoli nelle dispute diplomatiche tra ufficiali ottomani e consoli veneziani
Lo scopo della mia presentazione è quello di dare nuove testimonianze documentarie al dibattito sul ruolo giocato dalle istituzioni legali nel processo di litigio e di risoluzione delle dispute diplomatiche nel Mediterraneo orientale. A tal fine, farò particolare riferimento ai documenti scritti ottenuti dalla capitale ottomana nei contenziosi tra i consoli veneziani e i loro interlocutori ottomani tra Sei e Settecento. Presenterò dei casi relativi a reclami che coinvolgevano sia numerosi sudditi veneti stabilitisi nelle periferie dell’Impero ottomano sia personaggi altolocati di Costantinopoli; tali casi generarono infatti crisi diplomatiche tra i rappresentanti ottomani e quelli veneti. Mostrerò come lo scambio di informazioni e documenti tra la Porta e i suoi possedimenti periferici assumesse un ruolo di mediazione nelle dispute diplomatiche, dove la validità e il significato delle Capitolazioni (con i relativi privilegi corporativi) erano spesso materia di discussione e negoziazione. I casi presentati forniranno poi importanti indizi sull’uso della documentazione scritta nelle dispute emerse nell’intensa negoziazione diplomatica tra la Repubblica di Venezia e l’Impero ottomano. Infine, questi casi permetteranno di analizzare non solo la differente mentalità diplomatica dei due stati, ma anche come cambia nel tempo il rapporto degli agenti locali verso l’autorità centrale del sultano. Complessivamente, l’interesse di questa ricerca risiede nel concepire una comunità di «stranieri» in antico regime come un insieme di attori sociali capaci di influenzare il quadro legale al fine di ottenere privilegi a proprio vantaggio.
Le fonti relative a questi casi (conservate presso l’Archivio di Stato di Venezia) consistono prevalentemente in lettere inviate dai consoli della Serenissima al bailo e negli atti prodotti dalla cancelleria del bailo stesso. In questi documenti i consoli riportavano le più importanti fasi dei contenziosi che avevano luogo sia all’interno dei tribunali ottomani sia fuori.
«Oltre la nazione»: competenze e contatti al servizio dell’«altro» nel Mediterraneo di età moderna (XVII-XVIII sec.)
Coordinatore: Andrea Zappia
Membri: Fausto Fioriti, Andrea Zappia, Alessio Boschiazzo
Un mare chiuso come il Mediterraneo non favorisce gli scambi, li rende obbligatori. È – per citare Braudel – «tutto un sistema di circolazione», «un insieme di vie marittime e terrestri collegate tra loro, e quindi di città che, dalle più modeste alle medie, alle maggiori si tengono tutte per mano». Porti, litorali e isole sono i gangli di questa rete nella quale si sviluppa la dialettica, spesso conflittuale, tra le norme e le prassi. Questo osmotico scambio di uomini, competenze, contatti, denaro e merci si attua nelle maniere più disparate: commercio, contrabbando, guerra di corsa, pirateria.
In un mondo nel quale ciò che conta è quasi soltanto il profitto, la sponda nordafricana ed il Levante risultano teatri di grande interesse. Nei paesi soggetti all’Impero Ottomano il merito individuale appare più importante dell’appartenenza etnica, nazionale o religiosa: i ruoli di spicco presso la Sublime Porta – e ancor di più presso le Reggenze barbaresche – sono occupati principalmente da europei, rinnegati e non, secondo un modello che peraltro risale al multietnico e pluralista Impero Romano. La composizione etnicamente variegata dei quadri ottomani e barbareschi si inserisce nel contesto di società caratterizzate da una spiccata mobilità interna e generose di opportunità per gli stranieri più intraprendenti, in particolare agenti e negozianti europei alla ricerca di nuovi e lucrosi sbocchi per i propri traffici.
Il presente panel si propone di analizzare le esperienze dirette e indirette di alcuni personaggi appartenenti o comunque originariamente legati all’ambiente genovese i quali operano a diverso titolo al servizio di “nazioni” estere in piazze ottomane e barbaresche. Il patrizio genovese Battista Durazzo, agente di commercio nella Smirne del secondo Seicento, ci restituisce un quadro del vivace scalo levantino, pullulante di europei, ebrei e armeni. Spostandoci sul versante nordafricano, la famiglia Bogo di Tabarca rappresenta un esempio formidabile di inserimento nella Tunisi del Settecento, operando in ossequio dei propri interessi ora per Genova, ora per il bey, ora per la Casa d’Austria. Infine, la parabola di Emmanuele Luxoro ci consente di conoscere le vicende di un uomo doppiamente straniero, figlio del console genovese a Marsiglia ma al servizio dei francesi nell’ambito delle concessioni in Maghreb nella seconda metà del XVIII secolo.
Fausto Fioriti, Un genovese a Smirne nel XVII secolo: l’esperienza di Battista Durazzo (1668- 1669)
La riapertura dei rapporti con la Porta nel 1665 diede al patriziato e ai mercanti genovesi nuove possibilità di guadagno: l’Impero Ottomano era un enorme mercato di sbocco e la Repubblica di Genova stava vivendo una seconda età dell’oro. Le nuove possibilità di guadagno coinvolgevano tutti gli strati della società: dai finanzieri aristocratici ai padroni marittimi, dai procuratori ai mediatori, fino ad arrivare a quanti lavoravano nella manifattura tessile destinata all’esportazione.
Per quanto riguarda i commerci col Levante le fonti sono piuttosto avare, specie quelle private. Fanno eccezione le carte di Battista Durazzo, patrizio genovese che visse e commerciò a Smirne per circa un anno e mezzo tra il 1668 e il 1669. Si tratta di cinque libri contabili e un copialettere, che ci hanno permesso di ricostruire il suo soggiorno in quello che era il più importante scalo commerciale dell’Impero Ottomano. Soprattutto ci informano sulla sua formazione mercantile e sul suo modus operandi, mostrandoci una quotidianità segnata da complesse relazioni interpersonali che lo legavano sia ai giusdicenti locali sia agli altri mercanti attivi sulla piazza, fossero essi franchi, ebrei, armeni o genovesi. Una documentazione preziosa che ci dà la possibilità di ricostruire le sue reti commerciali, fornendoci molte informazioni economiche sulla Smirne del Seicento.
Andrea Zappia, Una famiglia di frontiera nella Tunisi del Settecento: i Bogo
La minuscola isola di Tabarca rappresenta un ottimo esempio dell’osmosi sociale, economica e culturale caratteristica del Mediterraneo moderno. Situata tra Tunisi e Algeri, formalmente sottoposta alla corona di Spagna ma gestita tra il XVI ed il XVIII secolo dalla famiglia genovese dei Lomellini, Tabarca è il trampolino per l’ascesa dei Bogo. Originari del Genovesato ma forti della sostanziale apolidia caratteristica degli abitanti dell’isola, tra Sei e Ottocento alcuni esponenti di questa famiglia misero a frutto uno spiccato trasformismo, raggiungendo prestigio e fortuna presso la Reggenza di Tunisi ora come agenti e consoli genovesi, ora come “creature” del Bey, ora come membri dell’entourage del locale consolato asburgico. Tre sono le figure prese in considerazione nel presente intervento: dopo aver brevemente descritto la figura di Francesco Maria Bogo, maggiorente tabarchino della seconda metà del Seicento, ci soffermeremo sul ruolo del figlio Giovanni Angelo, console genovese a Tunisi per oltre trent’anni e figura di spicco all’interno della vivace comunità europea della Reggenza, e poi sul figlio di lui, Francesco, uomo di fiducia del bey Ali II, il quale recise il legame con Genova per diventare suddito austriaco gettando le basi di una fortuna familiare che perdurerà fino alla seconda metà del XIX secolo. Le parabole di questi tre uomini, che coprono grosso modo lo spazio di un secolo (dal secondo Seicento al secondo Settecento), rappresentano differenti modalità di successo all’insegna della più genuina mediterraneità, tre poliedrici esempi di stranieri sulla frontiera nordafricana.
Alessio Boschiazzo, Emmanuele Luxoro, un genovese al servizio della Compagnie Royale d’Afrique
Lo spazio mediterraneo è sempre stato caratterizzato da una forte mobilità interna, spesso determinata da ragioni professionali. Spostarsi per lavoro poteva infatti significare l’allontanamento, temporaneo o perpetuo, dalla propria città e nazione d’origine e quindi la necessità di adattarsi a contesti talvolta notevolmente differenti da quello di riferimento. Seppure quasi interamente trascorsa all’interno di un ambiente tendenzialmente chiuso e inserito in un quadro istituzionale peculiare come quello delle Concessioni francesi in Maghreb, la vicenda di Emmanuele Luxoro, per oltre 30 anni in Barberia come funzionario della Compagnie Royale d’Afrique prima e dell’Agence d’Afrique dopo, permette di evidenziare da un lato alcune delle opportunità fornite dallo spostamento in terra straniera, dall’altro le difficoltà e, in questo caso, la precarietà di tale scelta. Ulteriore elemento di interesse, Luxoro si presenta come uomo due volte straniero: originario della Riviera ligure, egli lavora all’interno del territorio delle Reggenze di Algeri e Tunisi al servizio di una compagnia di commercio francese. Il suo arrivo in Nordafrica, nel 1768, è legato all’ottenimento da parte della Compagnie Royale d’Afrique del privilegio esclusivo della pesca del corallo nelle acque tunisine. Figlio del console genovese a Marsiglia, Emmanuele Luxoro viene inizialmente assunto, grazie all’intermediazione del padre, come agente dei pescatori di corallo italiani e corsi ingaggiati dalla compagnia, per poi ricoprire nel corso degli anni diverse posizioni di responsabilità, fino a ottenere la funzione di ispettore della sede di La Calle. La sua esperienza nordafricana termina drammaticamente nel 1799: dopo un lungo periodo di relazioni relativamente pacifiche, le ostilità tra Parigi e Algeri costringono infatti gli impiegati dell’Agence d’Afrique a una fuga precipitosa nel tentativo di evitare la schiavitù.
Venerdì 25 novembre 2016
I «buoni costumi». Immagini di norme e pratiche sociali nella costruzione dell’identità
Coordinatore: Vincenzo Lagioia
Membri: Alessandro Cont, Vincenzo Lagioia, Tommaso Scaramella, Andrea Bruschi
Ci sono comportamenti e pensieri che possono essere praticati pubblicamente, altri invece che sono vietati, altri infine che si possono fare, ma di nascosto. In quale misura questi «buoni costumi» sono fondativi dell’identità? E quanto, invece, essi sono appresi e conformati secondo l’idea identitaria prescritta all’interno di una data società? La trasmissione delle norme proprie a una cultura è lo scopo primario di ogni forma di educazione. La sua funzione è anzitutto inclusiva, cioè di rendere i singoli parte integrante del tutto, assicurando così la sopravvivenza dell’intera comunità. In questo senso, la trasmissione dei «buoni costumi» ai giovani permette di portarli ad agire «correttamente», secondo le regole di un processo che si iscrive in un contesto sociale e di costruzione storica e di definizione di un modello sociale, di conseguenza anche politico, in grado di «rassicurare» la società e, in ultima analisi, di rafforzarne l’identità.
In primo luogo, il presente panel si propone di analizzare, in modo il più possibile multi- problematico e con un approccio che confronti contesti differenti, le modalità, gli strumenti e i modelli costitutivi della norma educativa e culturale all’interno della società d’Antico Regime. In secondo luogo, il panel vuole evidenziare, anche attraverso lo studio di singoli casi specifici, il processo di messa in discussione di quelle stesse norme, esemplificandone il momento in cui esse si rendono così evidenti agli occhi dei contemporanei, costringendole anche a delle sostanziali modifiche, il più delle volte interpretate dal potere politico come pericolose minacce alla stabilità collettiva.
Il tema identitario è senz’altro complesso e di difficile esplorazione, specie in p rospettiva storica. Gli studiosi che vi si confrontano devono fare i conti, soprattutto per l’Età moderna, con reticenze documentarie e con discontinuità interpretative. La diversità culturale del contesto storico rispetto al tempo presente richiede anzitutto un lavoro di ascolto delle fonti, più che di interpretazione. Per cercare di rendere tale complessità, si è scelto di approcciare l’indagine da angolazioni differenti, ma sostanziali, come l’educazione e la sessualità, che possano restituire nell’insieme, certo in modo sempre e solo parziale, una visione più problematica e meno statica delle variabili che sottostanno alla costruzione culturale dell’identità. Che si tratti dell’educazione aristocratica dei giovani nelle corti italiane, dell’apprendimento delle lingue straniere nella formazione della mondanità nobiliare, o delle trasgressioni alla norma eterosessuale nello Studio Pisano di metà Seicento, o ancora della «libertà» sessuale rimarcata nelle fonti processuali della Venezia del Settecento, la trasmissione dei «buoni costumi» finisce sempre per interrogare il confine normativo tra lecito e illecito, tra ciò che nella percezione collettiva è ritenuto appropriato e ciò che invece non lo è, là dove la morale acquisisce il suo significato più pragmatico.
Alessandro Cont, «Perdere tutta la giornata nel farsi li rizzi, e in ciarle inutili»? Modelli e costumi sociali per i giovin signori negli stati italiani del Settecento
Innumerevoli fonti letterarie ed epistolari del secolo XVIII raffigurano il giovane aristocratico italiano come un damerino frivolo, ozioso e dissipato, che nel poemetto satirico -didascalico Il Giorno di Giuseppe Parini trova la sua descrizione più celebre. E tuttavia, quello stereotipo del «giovin signore» vanesio e ozioso non esaurisce in sé la gamma di mentalità e di comportamenti manifestati dai nobili ragazzi nella quotidianità dell’Italia del Settecento. È indubbio che l’età dei lumi, con i suoi dibattiti e le sue riforme, introduca mutamenti nell’autocoscienza, negli itinerari formativi, nei riti mondani, nelle «carriere» dei rampolli nobili della Penisola, senza però che la persistenza di antichi costumi e ideali sia interrotta del tutt o e ovunque. Nuove pratiche sociali, mode e sensibilità interagiscono con le diverse tradizioni locali e con radicati valori etico -morali producendo esiti complessi e imprevedibili. La comunicazione si confronterà con questa tematica valorizzando fonti inedite di vario genere prodotte da casati nobiliari, autorità pubbliche e istituzioni educative (alcuni esempi raccolti da Bergamo, Bologna, Firenze, Genova, Lucca, Mantova, Milano, Modena, Napoli, Parma, Roma, Torino e Venezia).
Vincenzo Lagioia, «Si sospettava che ne fussi innamorato». Amori contro natura e immagini della sodomia a Pisa nel XVII secolo
La relazione vuole presentare il caso di un rettore dell’università di Pisa che s ubisce un processo interno allo studium, per sodomia, nell’anno 1642. Attraverso l’analisi del linguaggio e l’esame delle costruzioni dialogiche, si proverà a ripercorrere la definizione del modello e le sue interne contraddizioni. I passaggi processuali, proprio per il privilegio del foro di cui godevano non solo docenti e studenti ma anche tutta la popolazione universitaria, mettono in evidenza originalità che non si inseriscono nelle classiche formule procedurali. Ugualmente il confronto con la letteratu ra sulla giustizia criminale del periodo permette di focalizzare meglio la singolare propensione alla tolleranza di comportamenti per sé condannati dalla morale religiosa e dalla giustizia secolare. Alcune attenzioni semantiche, tutelanti e circoscritte, rivelano al lettore del documento la particolare attitudine del giudicante a indirizzare il dibattimento verso i fatti che meglio permettono al giudicato di ricevere un biasimo condiviso ma una condanna lieve se non, come nel caso proposto, inesistente. La cornice accademica inoltre, attraverso la narrazione dei fatti raccolti dalla procedura, emerge nelle forme che l’analisi storiografica sulla storia dell’università , in particolare su quella dello Studio Pisano, ha già indagato.
Tommaso Scaramella, «Venne un giovane con voce da femmina». Sodomia e libertinismo nella costruzione giudiziaria del genere a Venezia nel Settecento
Oltre ai registri criminali moderni, dove la sodomia rimase a lungo un delitto punito dalla giustizia secolare in forza di una censura morale, le fonti veneziane settecentesche illustrano altresì luoghi d’incontro, pratiche e discorsi esterni all’eteronorma. Da un lato, trattati criminali, scritti scientifici e morali continuarono a sottolineare il carattere distruttivo della sodomia nei confronti dell’equilibrio sociale. Ciò giustificò almeno in parte l’antica attività repressiva attuata dalle magistrature civili, resa ormai sistematica in seguito al disciplinamento tridentino. Dall’altro lato, interrogatori, denunce e fonti letterarie mostrano una composita rete, più o meno sotterranea, di persone e di spazi dediti agli incontri omosessuali. A partire da tali tracce, la relazione vuole indagare la costruzione del genere nella Venezia moderna, mettendo a confronto le diverse retoriche processuali, accusatorie e difensive, nella loro funzione stabilizzatrice dell’ordine costituito. Il tradizionale approccio dicotomico norma vs. devianza risulterà utile per riflettere sullo statuto penale della sodomia dei registri criminali moderni, cogliendo, pur nella divisione foucaultiana tra atti e identità, la complessità e la lunga durata di emozioni ed «etichette identitarie» emerse dallo scavo archivistico.
Andrea Bruschi, «Un modele accompli de l’education de la noblesse». Insegnamento delle lingue straniere moderne e cultura nobiliare e mondana nella Francia del Sei e Settecento
Nella Francia moderna emerge con forza l’idea di un’educazione completa per i gentiluomini, che affianchi cioè l’esercizio fisico e militare all’assimilazione di discipline teoriche, tra cui le lingue straniere moderne; e le modalità di studio di tali “sciences” si conformano alle norme costitutive della società delle élite di Ancien Régime. La relazione intende presentare alcune pratiche d’insegnamento e apprendimento delle lingue volgari nell’ambito della nobiltà transalpina del Sei e Settecento, considerandone in particolare gli aspetti legati alla formazione alla mondanità e alla cultura specificamente nobiliare. Lo studio, condotto su manuali a stampa, periodici dell’epoca e fonti manoscritte e d’archivio, si articolerà su due punti. Da una parte, si mostrerà come le lingue moderne siano spesso apprese non in quanto materie indipendenti, ma come parte dei saperi ritenuti fondamentali per l’educazione del gentiluomo alla vita sociale e alle attività tipicamente nobiliari. Dall’altra, si sottolineerà come l’insegnamento linguistico non sia orientato, in molti casi, verso un uso pratico, ma esclusivamente mondano: ci si limita ad assimilare oralmente le espressioni di saluto e di ringraziamento correnti, concentrandosi sulle pratiche di traduzione e di scrittura finalizzate alla lettura dei “buoni autori” in lingua originale e alla stesura di lettere.
Violenze contro il “diverso” in Calabria e Sicilia in Età Moderna (secoli XV-XVIII)
Coordinatore: Giuseppe Campagna
Membri: Giuseppe Campagna, Vincenzo Tedesco, Antonio Teramo
La transizione dal Medioevo alla prima Età Moderna, se distogliamo lo sguardo dagli abbaglianti splendori delle forme artistiche, ci pone di fronte ad alcuni percorsi seguiti dall’Occidente durante il Rinascimento che appaiono sconcertanti e si rivelano emblematici della complessità delle età di transizione. Il Quattrocento e il Cinquecento furono secoli nei quali possiamo notare un progressivo intensificarsi di fenomeni di intolleranza verso i “diversi”: coloro, che in un modo o in un altro, si trovavano ad essere fuori dalla grande communitas christianorum, siano essi ebrei, eretici o streghe. Eventi di tal genere proseguirono in maniera più o meno intensa per tutta l’Età Moderna, in particolare eventi bellici o epidemici costituivano, momenti di rottura nei quali questi particolari fenomeni d’intolleranza si acuivano e il “diverso” diveniva il capro espiatorio delle masse popolari, spesso fomentate dalla predicazione degli ordini religiosi. Ad esempio La caduta di Costantinopoli del 1453 e il conseguente diffondersi del “terrore del turco” non fecero che accentuare casi di integralismo.
Il 1517 con la pubblicazione delle 95 tesi del frate agostiniano Martin Lutero producendo un ulteriore fenomeno di rottura dell’unità della cristianità occidentale a cui la Chiesa Cattolica rispose con durezza nel reprimere le idee riformate ed eterodosse tramite i tribunali inquisitoriali e i decreti emanati dal Concilio Tridentino.
Il presente panel si propone di analizzare dei casi di intolleranza sfociati in atti di violenza e repressione nei confronti dei “diversi” della società calabrese e siciliana d’Età Moderna, prendendo le mosse dai fenomeni di violenza verso la numerosa e composita minoranza ebraica siciliana che videro un aumento esponenziale nel corso del XV secolo e soprattutto nell’ultimo quindicennio di presenza ebraica sull’isola, di particolare interesse risulta in questo caso il ruolo svolto dagli ordini mendicanti nell’aizzare il popolo contro la minoranza giudaica.
Tali fenomeni non furono fermati neanche dall’espulsione del 1492, infatti la presenza dei neofiti, spesso convertiti solo in apparenza, attirò per il primo quarantennio del XVI secolo l’attenzione dell’Inquisizione spagnola operante in Sicilia, producendo oltre ai numerosi roghi di “giudaizzanti” anche qualche caso di violenza popolare.
Il panel prenderà poi in esame la vicenda della repressione attuata dalle autorità spagnole e dall’Inquisizione romana, della particolarissima comunità valdese stanziata in Calabria fin dal Basso Medioevo e che, in seguito alla Riforma protestante avviata da Lutero, aveva aderito, come altre comunità valdesi d’Europa, al Calvinismo.
Ultima questione ad essere presa in esame riguarda la repressione da parte dell’Inquisizione spagnola di alcuni casi di eretici quietisti siciliani, avvenuta negli ultimi anni del XVII e i primi anni del XVIII secolo, quando Palermo e in particolare il convento di San Nicolò da Tolentino divenne centro di diffusione del quietismo nella società palermitana del periodo e condusse ad una feroce repressione che culminò con il rogo di alcuni eretici quietisti nel 1724.
Giuseppe Campagna, Violenze antiebraiche in Sicilia nel XV secolo
In Sicilia, come nel più ampio contesto europeo con l’avvento del XV secolo, periodi di crisi, carestie e pestilenze, in combinazione con le pressioni dei predicatori e con l’affermazione di un nuovo tipo di religiosità patetica insieme alla diffusione di sentimenti di intolleranza verso i diversi e gli esclusi – propiziati anche dal nuovo equilibrio mediterraneo creatosi in seguito alla caduta di Costantinopoli e all’espansione turca – condussero ad un acuirsi delle violenze antiebraiche, peraltro proseguite anche dopo l’espulsione del 1492 con la caccia ai “marrani”, i neofiti falsamente convertiti, vittime predilette dell’Inquisizione isolana durante il primo trentennio del sec. XVI. Spesso, furono le ricorrenze religiose, legate alla nascita o alla passione del Cristo, alla celebrazione della Vergine o di alcuni santi, a diventare momenti critici della convivenza: il clima di esaltazione, suscitato e fomentato dalle omelie del clero regolare, e soprattutto degli ordini mendicanti, favoriva assai sovente lo scatenarsi di aggressioni antigiudaiche.
Il caso più rilevante avvenne a Modica il 15 agosto 1474, festa dell’assunzione della Vergine, con una strage di grandi proporzioni che fece sì che i disordini si diffondessero in tutta l’isola.
Neanche l’espulsione del 1492 riuscì a fermare la violenza verbale dei predicatori che prendeva di mira adesso i neofiti, ossia gli ebrei convertiti. A Palermo, nel 1516, fra’ Girolamo da Verona che teneva i suoi sermoni quaresimali al popolo e al senato della capitale siciliana, si scagliò violentemente contro i nuovi convertiti che ben presto in segreto tornavano ad osservare la legge mosaica così la plebaglia palermitana si scagliò contro i numerosi neofiti della città.
I fatti siciliani sono – a mio parere – inquadrabili in un più ampio contesto europeo che vede l’acuirsi di sentimenti d’intolleranza verso i diversi. Per questo aspetto, la posizione degli ebrei è accostabile a quella di altri soggetti, ritenuti non integrati né integrabili nella comunità e dunque socialmente pericolosi, accusati di vari crimini ai danni della società cristiana quali streghe ed eretici.
Vincenzo Tedesco, Una delle più cruente repressioni del XVI secolo. Lo sterminio dei valdesi in Calabria (1561)
Il “diverso”, si sa, è stato spesso oggetto di persecuzioni nel corso della storia, ma uno dei secoli di maggiore violenza in questo senso, in particolare nei confronti della diversità etnico-religiosa, è sicuramente il XVI. La nuova spinta alla riflessione teologica, avviata dalla pubblicazione, il 31 ottobre 1517, delle celebri 95 tesi del teologo tedesco Martin Lutero, aveva stimolato un rigoglio di proposizioni più o meno distanti dalla dottrina della Chiesa di Roma allora imperante sulla cristianità cattolica in Europa occidentale, le quali avevano suscitato l’interesse anche di movimenti eterodossi secolari come quello valdese che, dopo una serie di incontri consultori, nel 1532 aveva aderito alla Riforma di tipo calvinista. Questa vera e propria rivoluzione teologica avrebbe avuto conseguenze su tutte le comunità della diaspora valdese europea, tra cui quelle che si erano stanziate a ondate migratorie in Calabria nel corso del basso Medioevo, beneficiando di congiunture a loro favorevoli. Alla metà del Cinquecento, tuttavia, la situazione era radicalmente mutata per via dell’irrigidimento delle posizioni cattoliche in materia di repressione del dissenso religioso maturate in seguito all’istituzione dell’Inquisizione romana a partire dal 1542 e delle decisioni scaturite dal Concilio di Trento (1545-1563). Queste circostanze, unite all’esternazione della nuova fede valdese, ora particolarmente avversata da Roma, avrebbero attirato in Calabria, in seguito alle vicende locali derivate dalla predicazione del pastore cuneese Gian Luigi Pascale, l’attenzione delle autorità spagnole e dell’Inquisizione romana, aprendo la strada alla soppressione di un gruppo etnico- religioso di lingua occitana e di fede valdese che per secoli era riuscito a convivere pacificamente e proficuamente con le popolazioni autoctone.
Antonio Teramo, Inquisizione e quietismo in Sicilia tra XVII e XVIII secolo: la repressione dell’ultima eresia
L’Inquisizione spagnola, introdotta nel 1487 in Sicilia, non fu soltanto uno strumento di disciplinamento religioso, ma costituì un apparato di controllo da parte di Madrid sulla società siciliana. Tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento gli interventi dell’Inquisizione in Sicilia andarono rarefacendosi con processi intentati prevalentemente in ambito del diritto penale o per delitti contro la morale. Essendo in quell’epoca ormai esauriti i fermenti seguiti alla Riforma, la repressione si concentrò sul quietismo, corrente nata all’interno della Chiesa cattolica, che è stata considerata dalla storiografia come una delle forme dell’esplosione mistica che ha caratterizzato il XVII secolo. L’avvio di questa corrente è segnata dalla pubblicazione, nel 1675, della Guìa espiritual del prete spagnolo Miguel Molinos. L’opera del Molinos, innescò una controversia che vide prevalere coloro che avversavano l’orazione di «pura quiete», «passiva» che metteva in secondo piano le opere, i sacramenti e la mediazione sacerdotale. I quietisti sfuggivano quindi al controllo ecclesiastico, scardinando la spiritualità mistica dai modelli devozionali tridentini.
A Palermo, dove l’arcivescovo Palafox aveva già mostrato le sue simpatie per l’opera del Molinos, il convento degli Agostiniani Scalzi di San Nicolò da Tolentino fu centro di irradiazione di una mistica fortemente influenzata dalla Guìa espiritual. Per tale motivo il convento finì nel mirino del tribunale dell’Inquisizione. Altri processi furono intentati verso alcuni personaggi: la terziaria carmelitana Teresa di San Girolamo, autrice del Castello dell’anima, un prontuario per giungere alla perfezione della preghiera di quiete; suor Gertrude Maria Cordovana e fra Romualdo di Sant’Agostino, in contatto entrambi col gruppo di cui Teresa era stata il centro ispiratore. Questi ultimi furono condannati al rogo eseguito il 6 aprile 1724.
Il “diverso”, in questo caso è un membro della stessa società che lo accusa di romperne l’uniformità religiosa, ancora nel XVIII secolo, quasi alla fine della stagione inquisitoriale in Sicilia, è oggetto di repressione.
Gli spazi cittadini in età moderna: regole, amministrazione e privilegi
Coordinatore: Gaia Bruno
Membri: Andrea Giordano, Antonio Iodice, Gaia Bruno
Da alcuni anni lo spazio è entrato a far parte dei temi della storiografia come oggetto autonomo e non più solo come sfondo, cornice geografica e concausa dei grandi avvenimenti del passato.
Come spesso accade, però, la nuova centralità di questo tema non è andata di pari passo con una sua precisa definizione, ma ha anzi aperto la strada alla discussione metodologica. Con quali strumenti lo storico può pensare di cogliere l’essenza dello spazio come tema di studio? Alcuni hanno sottolineato la necessità di stare in guardia nei confronti dell’apparente concretezza di questo oggetto storiografico, che è inevitabilmente condizionata dalla natura delle fonti disponibili, per lo più un insieme di atti giurisdizionali, che finiscono per mettere in luce solo le rivendicazioni di diversi soggetti per il possesso dello spazio.
Partendo da questo presupposto, i contributi raccolti in questa proposta si interrogano criticamente innanzitutto sul problema comune della regolamentazione degli spazi cittadini, pur se declinandolo in diversi contesti e affrontandolo con diverse fonti. Ma la produzione normativa non è l’unica prospettiva che ci si propone di affrontare, nella misura in cui essa non era l’unica a dare forma agli spazi. Una particolare enfasi, infatti, verrà posta sullo spazio come teatro dell’interrelazione di diversi attori sociali, soggetti di un antico regime ormai visto nella sua natura pluralistica. Inoltre l’articolazione del panel seguirà un ideale fil rouge spaziale più che cronologico, per sottolineare lo svolgersi di un percorso idealmente concentrico dalle proiezioni esterne della città (il suo mare) al punto di raccordo tra mare e terra (il porto) fino a giungere nel vivo del tessuto cittadino con i suoi quartieri e le sue case.
Dunque lo spazio, i cui contorni verranno definiti progressivamente col procedere delle relazioni, sarà innanzitutto quello marittimo. Un mare, spazio esterno alla città che la lambisce e ne fa intimamente parte, che costituisce un prolungamento delle sue attività in termini di commercio e produzione. La prima relazione si soffermerà ad analizzare il caso delle peschiere del Mar Piccolo di Taranto, tra XVIII e XIX secolo, come esempio significativo delle dinamiche amministrative e di appropriazione di questi spazi produttivi di soggetti in concorrenza, come la corona e i privati.
Il mare, però, non implica solo uno sforzo amministrativo degli spazi acquatici, esso modifica profondamente anche la natura dei luoghi cittadini che confinano con esso. È il caso analizzato nella seconda relazione: Marsiglia nel secondo Seicento acquisisce uno status di franchigia portuale grazie alla quale inizia ad attirare stranieri. Gli spazi cittadini ad essi riservati sono oggetto di una specifica regolamentazione.
Il percorso del panel si completa proprio all’interno della città e più precisamente negli spazi privati delle abitazioni dei napoletani del Settecento. L’analisi si articolerà sul tema del confine tra pubblico e privato e sulle caratteristiche che assume lo spazio privato in relazione alla diversa regolamentazione a cui l’uso delle abitazioni faceva riferimento, quella scritta, ufficiale, e quella non scritta delle norme sociali.
Andrea Giordano, Amministrazione di uno spazio marino: le peschiere nel Mar Piccolo di Taranto
A partire dall’epoca del dominio bizantino, il Mar Piccolo di Taranto fu suddiviso in peschiere destinate alle rendite di vari enti ecclesiastici (non necessariamente tarantini). Documenti di epoche successive testimoniano il perdurare di quest’usanza con l’estensione di tale beneficio anche a privati. Risale all’ultimo principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la raccolta di consuetudini volte a regolare la concessione e l’estensione di tali peschiere, nonché l’indicazione dei tempi e delle tecniche per ogni singolo tipo di pesca lecita: tale raccolta costituisce il nucleo originario del cosiddetto Libro Rosso della Regia Dogana del Pesce, testo normativo rimasto formalmente in vigore fino al 1864. Gli sforzi per incrementare le rendite della corona napoletana compiuti da funzionari regi alla fine del XVIII secolo – che ebbero come principale conseguenza il vero e proprio decollo della mitilicoltura – portarono a una gestione più scientifica dei fondi del Mar Piccolo, con la redazione di mappe e il coinvolgimento di ingegneri, al fine di individuare incontrovertibilmente le peschiere di proprietà reale e distinguerle da quelle private.
Antonio Iodice, Essere straniero in un porto franco. Politiche di accoglienza e contraddizioni nel porto franco di Marsiglia
Il 26 marzo 1669 il ministro Colbert, dopo lunghe e faticose trattative con la Camera di Commercio locale, istituì ufficialmente la franchigia del porto di Marsiglia. L’obiettivo era concorrere con le vicine piazze mercantili di Livorno e Genova, attraverso un regolamento che favorisse l’arrivo di componenti straniere selezionate, in grado di ampliare il raggio dei commerci cittadini e di dare nuova linfa all’armamento locale. Il quartiere creato in seguito all’agrandissement del 1666, nei progetti regi, avrebbe dovuto designare l’area di insediamento per i nuovi arrivati. Il mio intervento si propone di esaminare la normativa marsigliese riguardante gli stranieri dalla promulgazione del porto franco fino alla vigilia della Rivoluzione. In parallelo si osserva la sua applicazione pratica, anche attraverso alcuni contenziosi, e i diversi trattamenti riservati ai vari stranieri: ebrei, armeni, protestanti, genovesi, napoletani, svizzeri. Da questa analisi emerge la fluidità delle norme e la presenza, pressoché costante, di eccezioni e consuetudini di volta in volta accettate, desiderate o respinte dai vari attori sociali coinvolti.
Gaia Bruno, Le regole dello spazio privato: le case a Napoli nel Settecento
Lo spazio privato per eccellenza all’interno della città è quello dell’abitazione. A Napoli nel XVIII secolo fu prodotta una consistente mole di documentazione riguardante le abitazioni della città sotto forma di decreti civili, che consente un’approfondita indagine sulla natura degli spazi privati e sulla loro regolamentazione.
Innanzitutto si cercherà di definire che cosa significhi veramente spazio privato, quali siano le sue caratteristiche, quali i suoi confini. Questo sarà possibile attraverso l’analisi di alcuni episodi di sfratto in cui è visibile il conflitto tra ufficiali regi e inquilini morosi.
In secondo luogo si affronterà il tema della normativa giuridica: nella maggior parte dei casi, le abitazioni non sono di proprietà di chi le occupa, ma di altri soggetti che ne regolano rigidamente l’acquisizione e l’uso. Inoltre, accanto all’azione dei proprietari e degli inquilini, verrà considerata quella del governo regio, che dal 1742 avvia un’opera sempre più serrata di intervento in materia di legislazione abitativa.
Regolamentazione dello spazio privato, però, non significa solo creazione di apparati legislativi; essa implica anche l’obbedienza a regole non scritte della vita sociale. È questo un ulteriore punto significativo su cui concentrare l’attenzione alla ricerca delle tracce di una corrispondenza tra spazi della città, tipi di abitazione e identità sociale degli inquilini.
Imperi alla prova dell’informazione: risorse immateriali e controllo degli spazi distanti
Coordinatore: Danilo Pedemonte
Membri: Alejandro García-Montón, Matteo Barbano, Danilo Pedemonte
La storia degli imperi dell’età moderna, politici o economici che siano, non può essere raccontata senza analizzare il modo in cui quegli stessi imperi hanno gestito il proprio rapporto con lo spazio controllato. Si tratta al principio di un problema di distanze: siano geografiche, economiche o culturali, esse rappresentano il primo ostacolo che il centro incontra nella quotidiana conduzione dei suoi interessi periferici. Non possiamo infatti dimenticare che se oggi viviamo in un mondo in cui grandi collegamenti sono pensati in linea d’aria, la quotidianità spaziale dell’età moderna era caratterizzata da difficoltà pratiche di ordine logistico ed organizzativo: si trattava di un mondo in cui la rapidità decisionale era subordinata ai ritmi delle poste, resi lenti dalle accidentate vie continentali o dalle bizze dei venti marini.
Questo panel, partendo da contesti cronologici e realtà statuali differenti, affronta proprio il tema della “distanza” secondo un approccio che parte da una base analitica comune: i tre interventi, infatti, muovono dal presupposto che la capacità di ottenere e gestire le informazioni, nonché la conoscenza del peculiare ambiente operativo abbiano sensibili ricadute sull’efficacia o la fallacia delle politiche imperiali in spazi lontani. È proprio perché viene da distante che l’informazione deve essere il più possibile precisa; ed è proprio a causa della distanza che gli informatori devono essere ad un tempo fidati, cioè legati al centro, ma anche integrati alla realtà locale, per poter avere accesso a canali comunicativi privilegiati.
Nel caso spagnolo, ad esempio, la frammentazione dell’informazione proveniente dalle Indie occidentali viene individuata come una concausa alla crisi economica di metà Seicento. Nel rapporto degli inglesi con il Marocco, invece, risulta evidente come dall’esperienza negativa di quello che viene definito “l’uomo sbagliato nel posto sbagliato” prenda le mosse un radicale rinnovamento della presenza istituzionale inglese nel Mediterraneo. Nell’analisi del caso degli inglesi a Livorno, infine, si mette in luce come la presenza di informatori introdotti e fidati tra gli attori che rappresentano lo Stato in loco garantisca un antidoto contro le tendenze “diasporiche” dei mercanti della British factory.
Alejandro García-Montón, Imperio, información y crisis fiscal. El tráfico de esclavos en Hispanoamérica como caso de estudio (1640s-1650s)
En la interpretación de las crisis fiscales durante el periodo moderno prevalecen dos perspectivas. La primera, se centra en el descenso de la actividad o concepto a tasar. La segunda, interpreta estas crisis como un problema de agencia recaudatoria, esto es, el actor con derecho a extraer los derechos pierde capacidad relativa para llevar a cabo la recaudación. La perspectiva que emplearemos aquí, menos frecuente pero no menos interesante, pone el acento en el acceso a la información. Fiscalidad e información son dos conceptos estrechamente relacionados ya que el acceso a la información permite desarrollar mejores herramientas y políticas de recaudación. A su vez, la fiscalización de actividades económicas y bienes genera un volumen de información tan variopinto como valioso para el recaudador puesto que podía emplearse en diferentes ámbitos. Estos dos aspectos se relacionan como una variable positiva, es decir, el valor alto de uno resulta en un valor alto del otro.
Continuando en esta línea interpretativa, en esta presentación nos acercaremos al papel que tuvo el acceso a la información en la crisis fiscal acaecida en el ámbito de la importación de esclavos en Hispanoamérica durante las décadas de 1640 y 1650. Nuestra hipótesis de partida plantea que los problemas de los órganos gobernativos imperiales para acceder a información sobre el volumen y las geografías del tráfico de esclavos, por un lado, y sobre la falta de celo recaudador de sus agentes en América, por otro, resultaron cruciales a la hora de mermar la capacidad recaudatoria del imperio español.
De esta manera, pretendemos arrojar luz sobre uno de los problemas fundamentales que los imperios moderno tuvieron que afrontar a la hora de financiarse y gobernar sus territorios: el acceso a una información fiable, precisa, constante y lo más heterogénea posible. Este problema se pone especialmente de relieve en el caso del imperio español dado el carácter global de su extensión territorial.
Matteo Barbano, L’uomo sbagliato nel posto sbagliato: l’evoluzione degli agenti diplomatici britannici in Barberia nel secondo Seicento
“This is to inform you” – scriveva il 30 novembre 1669 un funzionario della corte imperiale marocchina, in una lettera che, ripulita dalle formule rituali, tradiva tutta l’impazienza del sultano – “that Our Lord has ordered us to write this letter to you to assure you of your safety and to inform you of his full safe-conduct which reaches you enclosed with this. So let your mind be at rest concerning it“. Il destinatario della missiva era Lord Henry Howard, l’ambasciatore che Carlo II Stuart aveva inviato ormai da mesi in Nord Africa per trattare nuovi accordi con il turbolento Taffiletta. Egli tuttavia – terrorizzato dai presunti pericoli dell’entroterra e completamente impreparato ad assolvere il delicato compito – non lasciò mai la sicurezza delle mura di Tangeri; toccò ad esperti mercanti britannici il difficile compito di colmare le distanze – fisiche e culturali – tra Londra e Marrakech. Il risultato non fu un successo, ma permise all’amministrazione coloniale tangerina – e ai signori di Whitehall – di osservare i limiti dei loro canali diplomatici istituzionali, imparando un’importante lezione sull’impiego di intermediari qualificati in Barberia.
Partendo dal caso di Howard, obbiettivo di questo contributo è riflettere sulla necessità, da parte della corona britannica, di cooptare con sempre maggior frequenza attori privati – spesso uomini di negozio – all’interno del proprio corpo diplomatico nel periodo successivo alla Restaurazione Stuart. Una necessità che trovò risposta non solo a Tangeri, ma che interessò l’intero Mediterraneo meridionale, portando ad un radicale rinnovamento dell’istituto consolare in Barberia che avrebbe concorso, nell’arco di un ventennio, a rafforzare notevolmente la presenza inglese – tanto militare quanto mercantile – nel “grande mare”.
Danilo Pedemonte, Le tentazioni della distanza. La British factory a Livorno: interessi privati, identità nazionale, tendenze “diasporiche” e sorveglianza statale
Nel corso del XVIII secolo la Gran Bretagna impone la propria egemonia marittima e commerciale sullo spazio mediterraneo, uno spazio per lei tanto attraente quanto distante e conteso. Il successo della penetrazione inglese, pur beneficiando senz’altro dell’acquisizione, in seguito alla guerra di successione spagnola, degli avamposti strategici di Gibilterra e Minorca, è un fenomeno che si spinge ben al di là della mera conquista territoriale. La trasformazione del Mediterraneo in “lago inglese” è frutto, infatti, di una appropriazione non tanto militare quanto economica del “grande mare”, di una vera e propria occupazione che ha nei negozianti inglesi insediati a Lisbona, Cadice, Livorno e nelle loro ramificate reti mercantili i suoi più efficaci promotori.
Se gli interessi privati degli avventurieri inglesi nel Mediterraneo rappresentano in qualche modo il grimaldello che apre alla Gran Bretagna la via tra gli Stretti, una catena strutturata di funzionari statali garantisce che tali interessi privati non sfruttino la distanza dalla madrepatria per ritagliarsi pericolosi spazi di autonomia: l’obiettivo è infatti l’anglicizzazione del Mediterraneo e non la “mediterraneizzazione” degli inglesi.
Queste dinamiche possono essere seguite da vicino prendendo in considerazione il caso della comunità inglese a Livorno tra la fine degli anni Trenta e quella degli anni Quaranta del Settecento. I tentativi della nuova dinastia lorenese di separare gli interessi della British factory livornese da quelli della madrepatria inglese sono sventati grazie all’esistenza di una efficiente rete informativa che fa capo alle figure istituzionali del console a Livorno (Burrington Goldworthy) e dell’ambasciatore a Firenze (Horace Mann). Questi, ben inseriti nel piano orizzontale delle relazioni intermediterranee, garantiscono un continuo afflusso di informazioni lungo l’asse verticale che collega Londra al “grande mare”, ed esercitano un controllo essenziale sulle possibili tentazioni “diasporiche” dei connazionali che operano nello scalo granducale.
Il Granducato di Toscana e le Repubbliche di Genova e Lucca: equilibri e rapporti di potere nella prima metà del Seicento
Coordinatore: Diego Pizzorno
Membri: Diego Pizzorno, Annalisa Biagianti, Giorgio Tosco
Non sembra azzardato affermare che il tema delle relazioni tra Genova, Lucca e Firenze sia rimasto in un cono d’ombra storiografico. Eppure, questi tre antichi Stati italiani componevano un’importante e complessa area geo-politica, caratterizzata dai rapporti di consolidata amicizia tra Genova e Lucca, e dall’accesa rivalità politico-commerciale tra le due Repubbliche e il Granducato. Il panel si propone di entrare nel vivo di questi delicati equilibri, prendendo in esame un arco temporale in cui gli assetti della Penisola furono minacciati dall’avvio di diverse operazioni belliche: le due guerre di successione di Mantova e del Monferrato, l’attacco franco-sabaudo contro Genova nel 1625, e lo scoppio della prima guerra di Castro negli anni Quaranta del Seicento. La congiuntura più critica si colloca nella seconda metà degli anni Venti, quando, dopo l’insuccesso dell’offensiva militare del ’25, Torino passa nel campo spagnolo, lasciando Genova in una condizione di isolamento diplomatico nella quale matura un tentato golpe filo-sabaudo, ossia quello di Giulio Cesare Vachero nel 1628. Lucca visse con grave apprensione questi accadimenti, preoccupata dalle ripercussioni di un collasso dello Stato genovese che l’avrebbe privata di un importante partner da opporre all’espansionismo del Granducato. Firenze guardava infatti con interesse a quei rivolgimenti, intravedendovi la possibilità di ottenere ingrandimenti territoriali a spese delle due Repubbliche. Ma la più ampia prospettiva cronologica adottata ci consente d’indagare aspetti di lungo corso: dalla strategica alleanza tra le due Repubbliche, alle complicate vertenze di confine tra Genova e Firenze, passando attraverso lo svilupparsi di relazioni diplomatiche che fanno emergere con forza le particolarità del contesto genovese. A causa dei vincoli imposti da Madrid, a Genova le manovre diplomatiche erano affidate a uomini o famiglie del patriziato locale, secondo un sistema di negoziazione politica informale che prescindeva dalla natura delle relazioni con Genova; e al quale anche il Granducato dovette far ricorso. Con il conforto di una ricca messe documentaria, proveniente dalle carte politico-diplomatiche conservate negli archivi dei tre antichi Stati italiani, l’indagine evidenzierà i complessi legami tra entità statuali differentemente legate tra loro, in un’area cruciale per gli assetti dell’Italia spagnola.
Diego Pizzorno, La Repubblica di Genova nella prima metà del Seicento: una complessa piattaforma negoziale all’ombra della protezione politico-diplomatica spagnola
Nello scacchiere degli antichi Stati italiani, la Repubblica di Genova era una pedina del tutto particolare. Pressoché imbelle e vincolata da un’alleanza con la Spagna che poteva assumere i tratti del protettorato, la Repubblica rivestiva un ruolo importante nel sistema di poteri di Madrid; e non soltanto per il potere dei suoi banchieri. A questo rilievo privatistico, s’aggiungeva la forte centralità strategica dei territori genovesi, crocevia di uomini, merci e informazioni. La Corona spagnola se n’era assicurata il controllo senza imporvi il suo diretto dominio, dovendo così mediare con le autorità genovesi per potersi servire dei transiti liguri. Un confronto che si fece sempre più difficoltoso nel corso del Seicento, quando i diversi scenari bellici italiani e internazionali indussero Madrid ad atteggiamenti più disinvolti, e spesso prevaricanti, nei confronti della libertà e dell’indipendenza dello Stato genovese. Tra doppiezze, sotterfugi e sgarbi più o meno scoperti, l’oligarchia della Repubblica iniziò a palesare velleità di sganciamento dall’intesa con Madrid, facendo di Genova una piattaforma diplomatica nella quale si animavano le manovre di diversi Stati. Lo studio si propone di fornire un quadro generale del complesso contesto diplomatico genovese, analizzando gli sviluppi delle politiche adottate dai governi della Repubblica, ed evidenziando l’esistenza di numerosi canali diplomatici in costante bilico tra ufficialità e informalità. Il ricorso alle relazioni private e di patronato era infatti una prassi operativa non soltanto nei rapporti con Lucca e Firenze. Parma, Modena e Torino si servivano abitualmente di agenti reclutati all’interno del patriziato della Repubblica, orientando la piattaforma diplomatica genovese ora verso Madrid, ora in senso opposto: verso quella Corona francese che poteva contare a Genova su alcuni nobili a lei molto vicini.
Annalisa Biagianti, Genova e Lucca nell’Italia spagnola: forme della rappresentanza e ragioni di un’alleanza repubblicana
Tra gli Stati dell’Italia spagnola della prima metà del Seicento, Genova e Lucca presentano una particolare affinità. La comune forma di governo repubblicana determina una vicinanza, alla quale concorrono rapporti di amicizia e parentela tra le famiglie dei rispettivi patriziati, e soprattutto la collocazione di entrambi gli Stati nell’orbita d’influenza spagnola. Tra le due Repubbliche s’instaura così un’alleanza che si rinnova e si consolida nei vari momenti di crisi e conflitto in cui si trovano impegnate nei primi decenni del XVII secolo. Il presente paper si propone di approfondire i rapporti tra Genova e Lucca, concentrandosi su due aspetti: le forme della rappresentanza diplomatica e i motivi della fortuna di questa alleanza. In primo luogo, l’analisi si concentrerà sulla prassi dei contatti diplomatici tra i due governi. In assenza di ambasciatori residenti, i rapporti sono gestiti principalmente attraverso due modalità: il diretto scambio epistolare tra i due governi, favorito dalla vicinanza geografica; l’utilizzo di «gentiluomini senza carattere», rappresentanti formalmente incaricati dal governo ma non ufficialmente accreditati. In secondo luogo, sarà possibile evidenziare le ragioni di questo sodalizio repubblicano, analizzando alcuni momenti in cui è chiamato in causa: le preoccupazioni di Lucca di fronte alle mire espansionistiche del Granducato di Toscana, le guerre di Modena (1603, 1613), le richieste di aiuto militare di Genova durante la guerra savoina (1625) e la successiva congiura di Vachero (1628). Ricostruire i processi decisionali dei due governi in tali frangenti consentirà di mostrare quali motivazioni – l’identità repubblicana, i contatti diretti, la devozione alla monarchia cattolica – abbiano influito maggiormente nella decisione di Lucca di ricorrere alla protezione genovese, e di Genova nel richiedere l’aiuto militare lucchese.
Giorgio Tosco, Genova e Firenze nei primi decenni del Seicento: un rapporto complesso
La guerra fra Genova e i Savoia del 1625, e la conseguente instabilità interna allo Stato genovese, offrirono agli Stati non direttamente coinvolti sia opportunità che pericoli. In quel periodo Firenze stava perseguendo una politica estera attiva che, seppur improntata al generale mantenimento dell’equilibrio, non disdegnava l’uso della forza oltre i propri confini. Inoltre il Granducato condivideva con la Repubblica un’importante e difficile frontiera, segnata da banditismo, contrabbando e conflitti giurisdizionali, ed era in competizione con Genova per motivi di prestigio e di politica commerciale. Niente di strano, quindi, che le vicende della guerra fossero attentamente seguite a Firenze, dove alcuni membri della corte medicea erano a conoscenza dei piani cospirativi di Giulio Cesare Vachero, che in gioventù era vissuto a Firenze e aveva collaborato con un principe Medici, e che tenterà un golpe a Genova nel 1628. Circostanza nella quale la corte medicea poté intravedere la possibilità di invadere il territorio della Repubblica. Il presente intervento cercherà di ricostruire lo sfondo di queste vicende, indagando le figure degli agenti informali che da Genova si tenevano in contatto col Granduca. I legami clientelari che li univano a Firenze erano di varia natura: almeno uno di essi, ossia Giovanni Francesco Brignole, futuro doge, era addirittura un feudatario di Ferdinando II, ed era coinvolto in prima persona nella gestione della complicata frontiera lunigiana. Un altro terreno d’incontro era costituito dalla presenza a Genova di giudici di origine toscana; il Granduca poteva intervenire per sollecitarne la nomina, e chi doveva comparire in causa di fronte ad essi sapeva di poter chiedere una raccomandazione in proprio favore alla sua corte. Dalla prospettiva di Firenze, inoltre, Genova era un importante osservatorio sulla Monarchia Cattolica, e i propri agenti in città potevano tornare utili per potenziare i contatti tra il Granducato e la Corona spagnola.
Sabato 26 novembre 2016
Da Parigi a Napoli. Editoria e pubblicistica nel Mezzogiorno di Età napoleonica
Coordinatore: Veronica Sileo
Membri: Veronica Sileo, Alessandro Albano, Melissa Chantal Salerno
Nel quadro dei tanti percorsi di ricerca sul Mezzogiorno d’Italia in Età napoleonica, riteniamo di particolare interesse, per il Seminario di studio in programma per il 24-26 novembre p.v. a Bologna, un nostro possibile apporto sulla veicolazione di idee-forza di cultura politico-istituzionale, attraverso alcune delle più significative risultanze di un accurato percorso di ricognizione, riproduzione e analisi critica di testi tradotti e ripubblicati a Napoli, dal triennio giacobino- repubblicano alla rivoluzione costituzionale del 1820/21.
Nell’ambito della complessiva ricognizione/lettura effettuata, che su specifici tracciati ha finora coinvolto una Unità di ricerca di sei componenti (coordinatore scientifico il prof. Antonio Lerra) saranno presentati, oltre la parte introduttiva generale, singoli interventi su La Costituzione di Cadice nel Regno delle Due Sicilie (Sileo), L’amico della Costituzione (Salerno), Il Catechismo politico della costituzione della monarchia spagnola (Albano).
E ciò essenzialmente perché la più insistita attenzione per la ricostruzione e la lettura/rilettura, insieme con la veicolazione di testi a stampa, di profili di vita e di iniziativa politica, che nel Mezzogiorno d’Italia caratterizzarono la maturazione e la concretizzazione della nuova stagione politica di età rivoluzionaria e napoleonica, ha fatto, tra l’altro, via via emergere diffuse percezioni della fruttuosità dei rapporti con modelli affermatisi in altre realtà, europee ed atlantiche. Dal che anche la possibilità di lettura dell’articolato processo di affermazione di “una comune identità politica”, nelle articolazioni culturali e nelle caratterizzazioni attuative dei progetti di cultura politica e conseguente sistema di potere sui territori. La cui portata ed incidenza, oltre che caratterizzare l’inserimento del sottosistema Italia, ed in esso, del Mezzogiorno in particolare, nel più complessivo sistema di potere napoleonico, ebbe non marginali riflessi, in termini di cultura e di pratica politica, sulle stesse successive tappe del processo di costruzione, anche da Sud, dell’Italia unita.
Veronica Sileo, La Costituzione di Cadice nel Regno delle Due Sicilie: percezioni e adattamenti
Nell’ambito del più generale contesto di traduzione, edizione e veicolazione dei testi politici a stampa, la Costituzione di Cadice, tradotta a partire dal periodo immediatamente successivo alla sua promulgazione, nel 1812, fu oggetto di approfondita conoscenza in Europa. Le prime traduzioni italiane, edite nel 1813 a Messina e nel 1814 a Roma e a Milano, ebbero però vita breve perché la Costituzione era invisa ai governi restaurati, che non potevano gradire la proposta di una monarchia costituzionale così garantista. Gli avvenimenti del 1820, che in Spagna portarono al ripristino della Costituzione di Cadice del 1812, ebbero grande risalto anche a Napoli e a Torino, anche se il testo costituzionale non venne recepito tout court poiché fu obbligatorio che, contestualmente alla traduzione dei suoi articoli, esso seguisse un percorso di adattamento dei suoi contenuti alla situazione politica del Regno. Se più di una traduzione in italiano della Costituzione era in circolo già immediatamente dopo la sua promulgazione nel 1812, fu nel 1820 che questa conobbe un evidente exploit di traduzioni sotto la denominazione di “Costituzione politica del Regno delle Due Sicilie”. L’adattamento della Costituzione alle condizioni del Regno fu uno degli obiettivi del Parlamento, in risposta all’esplicita prescrizione dell’atto con cui la Costituzione era stata concessa. Durante il 1820-21, oltre quella della Stamperia del Parlamento, quattro edizioni furono curate dalle stamperie napoletane più importanti del periodo, e una ulteriore fu tradotta e commentata dal giureconsulto Angelo Lanzellotti che, oltre ad essere stato il primo e l’unico traduttore della Costituzione a “uscire allo scoperto” con una traduzione “d’autore”, fu anche il primo rendere note agli abitanti del Regno, nella loro lingua, le altre Costituzioni europee nonché quella degli Stati Uniti d’America, di molto incidendo sulla “percezione” del credo costituzionale.
Alessandro Albano, Il “Catechismo politico della Costituzione della monarchia spagnola”
Nell’ambito dell’ampia diffusione editoriale di traduzioni dal francese sviluppatesi in età napoleonica a Napoli, particolarmente rilevante risulta essere l’analisi, anche comparativa, di testi e costituzioni che, pur facendo in larga parte perno su idee-forza condivise di chiara matrice illuministica, si sono contraddistinti per specifici adattamenti e peculiari rielaborazioni frutto soprattutto del contesto politico-istituzionale e socio-economico di riferimento. In tale quadro, un ruolo di particolare importanza fu svolto dai “catechismi” che, com’è noto, pur pensati per rendere edotta la popolazione relativamente ai princìpi dell’ordinamento statale attraverso un formulario molto semplice e lineare, costituito, in larga parte, da domande e risposte su specifiche tematiche, rappresentano, oggi, un’interessante fonte di studio utile sia alla determinazione del complessivo patrimonio di cultura politica sottesa alle carte costituzionali, sia anche all’analisi delle modalità di autorappresentazione scelte da parte dal “potere pubblico”.
A tal proposito, un interessante caso di studio è rappresentato dalla prima edizione italiana (Napoli, 1820) del Catechismo politico della Costituzione della monarchia spagnuola. Il testo, diviso in 18 lezioni, affronta, con specifici riferimenti a determinati articoli della Costituzione, le tematiche più varie: dai “princìpi generali” agli organi dello Stato, dalla “nazione spagnola” alle Corti, con l’intento dichiarato, peraltro in linea con molte altre opere simili dell’epoca, di “illuminare il popolo” ed “istruire la gioventù”, con ciò contestualmente sottolineando, da subito, l’importanza di un modello d’istruzione funzionale ad un ordinamento statale, quale quello spagnolo, determinatosi a seguito della promulgazione della ben nota Carta costituzionale di Cadice del 1812.
E’ tra gli aspetti più interessanti del testo il tema della “sovranità” che, in linea con la costituzione francese del 1791, non si configurava più di derivazione divina, bensì esclusiva prerogativa della “nazione” cui sola spettava “il diritto di stabilire le di lei leggi fondamentali” e ciò a riprova, tra l’altro, dell’ampia diffusione e specifica declinazione di idee-forza nate in Francia ma ben presto divenute patrimonio ideale dell’Europa intera.
Melissa Chantal Salerno, Il ruolo del giornale napoletano “L’Amico della Costituzione”
Nel corso dell’Età napoleonica, dalla ventata repubblicana del 1799 alla rivoluzione costituzionale del 1820-21, il Mezzogiorno d’Italia si caratterizzò tra i più significativi laboratori di cultura e comunicazione politica, sia a Napoli che nelle province.
Un ruolo di rilevante portata e incidenza, a livello di veicolazione di idee-forza e di progettualità politica, fu svolto dai giornali europei, alcuni a livello di fogli a stampa quotidiana, altri a cadenza periodica, in ogni caso per ben determinati archi temporali, in rapporto alle contingenze politico- istituzionali. Del tutto peculiare risulta la funzione che, per otto mesi, dal 17 luglio del 1820 al 17 marzo del 1821, rivestì il giornale napoletano L’Amico della Costituzione, diretto dal “democratico” Leonardo Antonio Forleo, in collaborazione con Giuseppe Blasi e Pietro Colletta. Degni di nota sono, soprattutto, gli articoli, tradotti dal francese, in cui si descrivono le vicende avellinesi accadute nel luglio 1820, i dibattiti che riguardano l’adozione della Costituzione di Cadice e quelli che si riferiscono alla diffusione in tutta Europa delle “sette”, dall’Italia alla Francia, fino all’Alemagna. Notizie e dispute, queste ed altre, che vengono tutte sottoposte ai duri attacchi della critica francese.
Asse portante di tale soggetto politico collettivo è, senz’altro, l’analisi critica, da parte del redattore napoletano, di alcuni articoli e testi stranieri, in particolare di provenienza parigina, tra i quali il non casuale Ragionamento di un elettore con se stesso di Benjamin Constant. Rivelatrice dell’ottica europea della testata è, infatti, la scelta, da parte del Redattore napoletano, di voler diffondere questo testo, in cui l’autore spiega, attraverso un sottile e, al tempo stesso, dichiarato giudizio negativo nei confronti di Napoleone, le sue idee sulla libertà degli individui, sulla nomina dei Deputati quali garanti di una società democratica e giusta, sulla libertà dei culti e sulla libertà di stampa.
Una scelta, questa, lucidamente riconducibile agli allora prevalenti obiettivi redazionali napoletani per una società democratica e giusta, garantita da rappresentanze politico-istituzionali adeguate, oltre che del tutto libera nei culti e nella produzione a stampa.
Pratiche della mobilità tra Sette e Ottocento. Contesti, motivazioni e circolazione dei saperi
Coordinatore: Alessia Castagnino
Membri: Fabio D’Angelo, Antonio D’Onofrio, Rossella Baldi, Alessia Castagnino
Il XVIII secolo è stato definito da numerosi studiosi come il «secolo della mobilità», contraddistinto tanto dalle circumnavigazioni del globo terrestre e dalle esplorazioni scientifiche, geografiche e naturalistiche, quanto dal raggiungimento del massimo successo dalla pratica del Grand Tour, il viaggio di formazione per eccellenza che poteva delinearsi come una straordinaria esperienza conoscitiva non solo, come è logico, per coloro i quali fattivamente intraprendevano il viaggio, ma anche per tutti coloro con i quali essi venivano in contatto.
Al fenomeno delle pratiche della mobilità caratterizzanti gli ultimi decenni del Settecento è dedicato il presente panel, che vede la partecipazione di giovani studiosi che, nell’ambito di ricerche più ampie dedicate alla circolazione di saperi e competenze professionali nell’Europa d’età moderna, hanno affrontato questioni legate al tema del viaggio, dalle motivazioni sottese alla sua organizzazione e alla scelta di visitare determinate aree all’incontro dei viaggiatori con figure che li introducevano nel contesto sociale e culturale d’arrivo. Cercando di far dialogare fra loro differenti presupposti teorici e prospettive metodologiche (storia sociale, storia del libro e dell’editoria, storia culturale e storia della scienza), le relazioni si concentreranno su quattro casi specifici con l’obiettivo di proporre qualche utile riflessione di carattere generale e, allo stesso tempo, di presentare alcune tra gli indirizzi più recenti seguiti nello studio di tale – ormai classico – tema storiografico.
Innanzitutto, verrà richiamata l’attenzione su una della finalità principali che i viaggi potevano avere, ovverosia quella di mettere i viaggiatori nelle condizioni di arricchire le proprie competenze grazie all’incontro e confronto con altri modelli e tecniche. Fabio D’Angelo presenterà un intervento a questo proposito, interrogandosi sul contesto napoletano, che sarà esaminato non tanto come meta di arrivo, ma piuttosto come area di partenza di scienziati e funzionari che intraprendono un soggiorno al di fuori del regno di Napoli per acquisire nuove competenze da utilizzare al loro ritorno; in particolare, verrà analizzata la spedizione mineralogica organizzata dal governo borbonico nel 1789. In secondo luogo, partendo sempre dalla situazione del Regno di Napoli, verrà esplorato un tema meno noto, ovvero quello del soggiorno dei grand-tourists in un’enclave del regno, ovvero lo Stato dei Presidi. Ad occuparsi delle descrizioni di tale territorio sarà Antonio D’Onofrio, che tenterà di mostrare come, molto di frequente, tale contesto fosse percepito dagli stessi viaggiatori come in antitesi con lo stesso Regno di Napoli. Il soggiorno italiano di Roland de la Platière, figura di spicco della burocrazia d’Ancien Régime, sarà invece al centro della comunicazione di Rossella Baldi. Intrapreso fra il 1776 ed il 1777, il viaggio di Roland illustra perfettamente lo sviluppo di nuove attese nei confronti del rituale del Grand Tour, non più unicamente concepito in quanto esperienza educativa dalla forte valenza personale, ma come strumento d’acquisizione di uno specifico sapere tecnico e scientifico che Roland condenserà nelle sue Lettres écrites de Suisse, d’Italie, de Sicile e de Malthe pubblicate nel 1782. Infine, verrà evidenziato il ruolo svolto da figure come quelle dei “maîtres de langues” che da semplici insegnanti di lingua italiana potevano diventare veri e propri mediatori culturali che guidavano i viaggiatori nella conoscenza del contesto d’arrivo, spesso introducendoli nei vari salotti e nelle accademie e, in tal maniera, favorendo nuovi rapporti e circolazioni di saperi. A questo aspetto sarà dedicato il contributo di Alessia Castagnino, che svilupperà il problema conducendo un’analisi dettagliata sull’attività del prete fiorentino Antonio Pillori, maestro, tra gli altri, dello storico inglese Edward Gibbon.
Fabio D’Angelo, Dal Regno di Napoli all’Europa. Il viaggio mineralogico di sei scienziati napoletani (1789-1795)
Il contributo propone una riflessione sul viaggio mineralogico che rientra in una precisa strategia messa a punto dal governo borbonico nel Regno di Napoli volta a sviluppare il settore minerario; nel Mezzogiorno infatti l’organizzazione della spedizione mineralogica del 1789, nonché l’edificazione del complesso siderurgico di Mongiana e di Ferdinandea denotano un forte interesse per questo settore nell’ambito del nuovo indirizzo impresso da Carlo di Borbone e dal successore Ferdinando all’economia del Regno.
Antonio D’Onofrio, Una tappa meno nota del Grand Tour: lo Stato dei Presidi, porta lontana e figurata del Regno di Napoli
Che la Toscana fosse una tappa fondamentale del Grand Tour è cosa nota. Sia che il viaggio terminasse a Roma, Napoli, sia che si concludesse, addirittura, in Sicilia, Firenze rappresentava una pietra miliare dell’itinerario italiano dell’aristocrazia europea. Non tutti i viaggiatori, però, si spingevano sulla costa maremmana, nel territorio dello Stato dei Presidi, considerato poco ospitale per la sua natura e per l’aria insalubre che vi si respirava.
Questa piccola enclave del Regno di Napoli, fondata nel 1557 per volere di Filippo II e da allora sotto il dominio napoletano dapprima dei viceré spagnoli e poi, dopo la parentesi asburgica, dei Borbone, comprendeva il territorio del Monte Argentario e l’intera laguna di Orbetello con i comuni di Talamone e Santo Stefano e il territorio di Porto Longone sull’Isola d’Elba. La particolarità della tappa “presidiana” del Grand Tour risiedeva nella sua eccezionalità politica di enclave napoletana in territorio toscano. Vi sono esempi, infatti, in cui i passaporti per Napoli vengono richiesti al passaggio ad Orbetello e, soprattutto sul finire del Settecento, negati a coloro ritenuti pericoli o non graditi nel regno, spesso cittadini francesi.
Ma cosa aveva questo territorio di “napoletano”? Come i viaggiatori vedono i porti e le fortezze dello Stato dei Presìdi e come li rapportano – se lo fanno – a ciò che invece vedono nei territori campani del Regno di Napoli?
L’intervento si propone non solo, quindi, di riportare ciò che rappresentava lo Stato nei Presìdi nella rotta del Grand Tour, ma anche e soprattutto di analizzare l’immaginario confronto tra questa porta lontana e figurata del Regno di Napoli e i territori “effettivi” dello stesso Regno. Due mondi diametralmente opposti: i Presìdi in cui l’attenzione principale veniva rivolta all’aria malsana che si respirava più che alle bellezze del paesaggio e Napoli capitale europea; l’uno un territorio poco ospitale, l’altro una sorta di Paradiso.
Rossella Baldi, Un burocrate “grand turista”: Roland de la Platière in Italia (1776-1777)
Il presente contributo si sofferma sul viaggio in Italia di Jean-Marie Roland de la Platière (1734- 1793), che percorre la penisola fra il 1776 ed il 1777. Figura di spicco dell’ispettorato delle manifatture diretto dai Trudaine, Roland è inviato in Italia con il duplice scopo di preparare al mestiere dell’ispettorato il giovane Charles Bruyard (1753-1817) e di elaborare un approfondito studio della realtà economica italiana del tempo. Da questa duplice missione scaturirà un vero e proprio Grand Tour amministrativo, di cui parzialmente testimoniano i sei volumi delle Lettres écrites de Suisse, d’Italie, de Sicile et de Malthe che Roland dà alle stampe fra il 1780 ed il 1782. Lo studio del soggiorno del burocrate transalpino servirà da spunto ad una più ampia riflessione sul fenomeno del viaggio a valenza tecnologica dell’epoca dei Lumi, viaggio che, sulla scia delle due grandi imprese editoriali dell’Encylopédie di Diderot e d’Alembert e della Description des arts et des métiers dell’Accademia delle scienze parigina, conosce notevoli sviluppi nella seconda metà del Settecento. L’attenzione senza precedenti che le élite d’Ancien Régime rivolgono alle pratiche artigianali trova origine, effettivamente, in un’evidente logica progressista mirante a razionalizzare e a divulgare il funzionamento di tali pratiche. Ma essa conduce anche, in un certo qual modo, a ridefinire le norme e i percorsi del Grand Tour stesso. Una nuova categoria di viaggiatori – studiosi, accademici e burocrati – contribuisce ad ampliare i classici interessi storici ed artistici del viaggio in Italia : considerata alla stregua di Olanda ed Inghilterra come un vivaio di informazioni da carpire e da sfruttare, l’Italia viene così iscritta negli itinerari dell’erudizione tecnica dei Lumi. In tal modo, i codici del viaggio mondano vengono ad interagire con i metodi dell’indagine di terreno, dello spionaggio industriale e dell’inchiesta amministrativa.
Alessia Castagnino, Il ruolo dei maîtres de langues nel Grand Tour in Italia. Il caso dell’abate fiorentino Antonio Pillori
Il presente contributo si colloca all’interno di una riflessione maturata a margine – e a completamento – delle ricerche condotte sulle teorie e pratiche di traduzione che si svilupparono in vari contesti della penisola italiana nel corso del secondo Settecento. Lo studio delle attività principali di un gruppo di traduttori, in prevalenza toscani, ha permesso di iniziare ad interrogarsi sul ruolo che alcuni di essi ebbero come “maîtres de langues”, ovvero coloro i quali, in estrema sintesi, permettevano al viaggiatore di superare l’ostacolo linguistico. Tali figure – a mio giudizio non ancora sufficientemente analizzate nell’ambito della pur ricca storiografia sul Gran Tour nell’Italia settecentesca – svolgevano una funzione che andava ben al di là di quella di un maestro di lingua italiana. Essi venivano a configurarsi come “mediatori culturali”, dal momento che, molto spesso, introducevano i loro allievi nel nuovo milieu culturale, favorendo la loro frequentazione di accademie, istituzioni scientifiche e letterarie, biblioteche e contribuendo, in tal maniera, anche in questo caso ad una circolazione di idee. Dopo un’iniziale riflessione di ordine generale nella quale si cercherà di offrire un’analisi del fenomeno a livello italiano, la relazione si concentrerà sull’approfondimento di un caso specifico, ovvero l’attività del prete fiorentino Antonio Niccolò Pillori. Attraverso l’esame di alcuni episodi descritti nei diari dei più importanti viaggiatori che si rivolsero a Pillori per perfezionarsi nella lingua italiana, verrà ricostruito il suo ruolo di “mediatore culturale” tra la Toscana e l’Inghilterra del secolo dei Lumi. Un’attenzione particolare sarà riservata all’analisi del suo rapporto con Edward Gibbon, al quale il prete fiorentino non solo fece conoscere autori e libri italiani, ma fornì un aiuto indispensabile per la raccolta di fonti per la stesura delle sue opere storiografiche, presentandolo a letterati toscani e adoperandosi per favorire le sue visite alle principali biblioteche private di Firenze.