La decisione dei consigli regionali delle regioni meridionali, ma anche di molti consigli comunali, di approvare “giornate della memoria” non è che il risultato di una frattura fra le istituzioni e i saperi, dal momento che il presidente Emiliano ha scelto come suo consulente Pino Aprile, bypassando tutte le competenze riconosciute e legittimate delle numerose università pugliesi. Lo stesso iter hanno seguito a Napoli la revoca della cittadinanza a Cialdini decisa dal consiglio comunale di Napoli e la composizione della Commissione per la toponomastica, nella quale accanto a qualificate competenze e a presenze istituzionali come la Società Napoletana di Storia Patria e l’Archivio di Stato, figurano esponenti di forze politiche in funzione esclusivamente del loro peso elettorale. In compenso è stata la Commissione cultura di questo stesso Comune a richiedere, in merito alla giornata della memoria per i “martiri dell’unità d’Italia” la consulenza di due docenti dell’Università di Napoli, il cui parere, fatto proprio anche dall’Assessore alla Cultura, è stato recepito per bloccare la proposta.
I segnali sono molti e di lunga data. Essi rivelano un uso della storia ai fini della ricerca del consenso, che riprende tradizionali forme di uso del passato, oggi tuttavia ingigantite e deviate dalle modalità della comunicazione.
Fa bene Saverio Russo a ricordare l’allontanamento dalla storiografia sabaudista e risorgimentista di una feconda stagione di ricerca che ha insegnato a articolare la varietà delle situazioni del Mezzogiorno preunitario in base a dinamismi indagati con nuove fonti e più raffinati strumenti metodologici. Tutto ciò è rimasto tuttavia al centro di dibattiti che sembrano non aver coinvolto il grosso pubblico, sensibile invece alla divulgazione immediata, interessato a leggere testi manichei, che cavalcano le diffuse esigenze di una diversa considerazione dei bisogni di una parte del paese con gli strumenti dell’attacco personale e dell’offesa. È grave che di queste tendenze si facciano espressione istituzioni che finiscono per mettere in discussione e minare, al di là delle affermazioni di esclusivo scopo di stabilire la “verità storica”, lo Stato di cui sono espressione. Nei confronti dei nostri studenti e del messaggio pedagogico le conseguenze sono ancora più pesanti: la massimizzazione di discorsi complessi, che richiedono studio e conoscenza reale, non solo quantitativa, delle fonti, ci restituisce una generazione di insegnanti che nelle scuole superiori propagandano la stessa superficialità e la presunzione di poter annullare il passato con slogan da stadio o del cantante di turno che dagli spalti di piazza del Plebiscito o delle piazze dei piccoli paesi conquista applausi ricordando quanto le popolazioni meridionali siano state sfruttate e eroicizzando il brigantaggio, in tutte le sue forme, da quelle protestatarie legittimiste a quelle cannibalesche e da criminalità comune.
Renata De Lorenzo
Università di Napoli Federico II