Quasi ogni giorno la cronaca registra nuovi casi di violenza efferata nei confronti delle donne. Malgrado le reazioni emotive indotte dai media, e amplificate sui social, i contorni del massacro restano sfuggenti e la coscienza collettiva sembra esserne solo scalfita, anzi fuorviata dall’ansia di scaricare una colpa che ha radici profonde nella nostra storia pubblica e privata su un nemico esterno – lo straniero e la sua comparsa recente entro i nostri confini mentali; un pazzo isolato. Come ha scritto Rebecca Solnit, la violenza contro le donne si annida anche oggi nei recessi apparentemente più neutri del comportamento, nelle categorie mentali, nello stesso linguaggio che usiamo per definire ciò che conviene o non conviene a ciascuno dei sessi, nel dogma fittizio dell’incontrastata superiorità maschile.
La tragedia femminile che si consuma ogni giorno sotto i nostri occhi si inscrive in una tradizione culturale che per secoli ha forgiato le famiglie e tutta la società conculcando gli individui e la loro sessualità, costringendoli a scelte obbligate. Il sangue delle donne che è corso in passato nell’ambito delle famiglie, legittimato dai giuristi come giusta affermazione della supremazia maritale, paterna e fraterna, è stato oggetto di recuperi archivistici che hanno permesso di definire i contorni violenti della disciplina famigliare del buon tempo andato, ma non certo di dare valutazioni quantitative attendibili dell’estensione del fenomeno, nascosta dall’omertà domestica.
La segretezza, spesso difesa dalle stesse vittime, tuttora incide sulla nostra capacità di cogliere i reali contorni del fenomeno e valutare, ad esempio, se vi sia una recrudescenza della violenza nelle relazioni tra i sessi; soprattutto, non siamo in grado di dire se i femminicidi siano effettivamente di più o se colpiscano di più la nostra sensibilità come residui di tradizioni feroci che si vorrebbero superate. Una risposta esige un percorso psicoanalitico collettivo nella nostra storia.