Già all’epoca di Ruggero II, in Sicilia, la presenza di maestranze di diversa provenienza vicine alla corte, i rapporti diplomatici e commerciali fecero circolare gli artigiani e i loro prodotti tra Occidente e Oriente; Federico II si interessava agli oggetti rari e pregiati o esotici. L’imperatore era affascinato dagli automi e dalle “macchine”: il poeta Ibn Amdis ci tramanda la notizia che un albero d’oro e di pietre preziose, con uccelli meccanici, era situato alla Zisa.
Sempre nel Medioevo veri e propri luoghi di meraviglie erano i tesori delle chiese e dei conventi: reliquie di santi, ossa di giganti, pietre magiche. Nelle corti siciliane, nelle ricche dimore, perfino nei monasteri per fanciulle nobili si collezionavano oggetti raffinati e ricercati. Significativi studi hanno infatti provato l’esistenza di vere e proprie corti in campagna o in città, che sono state oggetto di approfondite indagini sia nel loro ruolo di centro politico-amministrativo e di gestione del patronage, sia soprattutto come luogo in cui si realizzava nella sua più alta forma il modo di vivere della nobiltà.
Il lavoro di Giuseppe Giarrizzo sui Branciforte di Cammarata ha dato lo spunto per le ricerche sui Ruffo di Sicilia.
Chi raccoglieva meraviglie e perché? Anzitutto coloro che detenevano potere, cultura e grandi possibilità economiche, cioè gli aristocratici; le raccolte erano di per sé mezzo per ostentare potere, ricchezza e suscitare ‘meraviglia’, ma troviamo anche medici, scienziati, intellettuali, istituzioni cittadine o religiose. In questo secondo caso prevaleva l’interesse per la cultura, assieme sempre al desiderio di esercitare una sorta di dominio sui visitatori, perché sia gli intellettuali che i signori nell’Europa del tempo coltivavano l’obiettivo di un controllo su tutto il sapere umano, attraverso un enciclopedismo del quale fanno parte anche le camere delle meraviglie, immagini concrete dell’universo mentale che il proprietario ricercava e che ambiva a ricreare in un luogo che non fosse solo “una stanza tutta per sé”, ma anche fascinoso e curioso per gli altri.
Nel Seicento l’aristocrazia europea mostrava una particolare inclinazione «ad apprezzare i fermenti innovativi in campo artistico, e a sostenere … le novità». La supremazia nobiliare in campo culturale fece sì che gli aristocratici si appassionassero all’arte, alle lettere, alla scienza, all’architettura, dedicandosi alla costruzione o ristrutturazione di fastose dimore. Molti motivi concorsero: le nuove tecnologie costruttive, un’ingente disponibilità economica, il desiderio di mostrare agli altri la propria immagine fastosa.
A Messina nel secolo XVII costruì la sua wunderkammer Antonio Ruffo, principe della Scaletta, figlio di Carlo Ruffo, duca di Bagnara e di Antonia Spatafora, appartenente ad una ricca e prestigiosa famiglia della nobiltà messinese. Fu lei l’artefice iniziale delle fortune del figlio prediletto. Rimasta vedova nel 1610 ed in attesa di un figlio, Antonia tornò a Messina, dove nacque Antonio. La Spatafora divenne per il figlio abile consigliera e sapiente stratega della sua fortuna, almeno fino alla maggiore età. Antonio crebbe a Messina ma si recò pure a Napoli, presso il fratello maggiore abate Don Flavio che viveva in quella città. Il Ruffo ebbe verosimilmente modo di vedere i tesori delle collezioni delle più importanti case napoletane, come la pinacoteca della famiglia Roomer.
L’aristocratico calabro-siculo coltivò i suoi interessi culturali e artistici e costruì la propria ascesa con opportune strategie: nel 1641 contrasse un conveniente matrimonio, sposando una parente della madre, Alfonsina Gotto, figlia di Placido, Fu ancora Antonia Spatafora l’artefice del progetto di costruire a Messina un palazzo nella contrada di Regio Campo alla Marina. A questo scopo la madre nel 1645 stipulò un accordo con il Senato della città per innalzare un palazzo al livello di quelli già esistenti in modo da continuare “decorosamente” la strada Emmanuella nella famosa “palazzata” di Messina o “Teatro marittimo”. Questa realizzazione, voluta dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia, costituì l’orgoglio della città, il segno della sua grandezza, la proiezione spaziale della nobiltà e della borghesia impegnate nei traffici mercantili.
A Palazzo Ruffo nei decenni centrali del secolo XVII si consumavano lusso, potere, cultura. Si susseguivano feste e ricevimenti in cui la principessa Alfonsina esibiva gli splendidi gioielli acquistati dal marito, mentre gli ospiti sedevano a lunghi tavoli imbanditi e impreziositi da raffinate tovaglie e splendide creazioni di argenteria commissionate dal Ruffo a importanti artisti messinesi.
Nella magnifica dimora si tenevano anche discussioni scientifiche di alto livello con personaggi come lo scienziato Alfonso Borrelli, il medico Marcello Malpighi, e il pittore, scienziato e filosofo Agostino Scilla.
Con il palazzo in città, un passaggio fondamentale grazie al quale l’aristocratico calabro-siculo diede inizio alla rappresentazione del proprio lignaggio, con la villa al Faro, con l’acquisto del feudo di Scaletta e del titolo di principe, con l’acquisizione del feudo di Floresta per matrimonio, con l’attività finanziaria in città in cui partecipa alla gestione dei principali appalti e fuori città con il commercio della seta e di vari prodotti (fra cui il grano), con i legami con commercianti napoletani e con le forniture di legname all’Ordine di Malta, Antonio Ruffo della Scaletta accumula un notevole patrimonio. Al centro la commercializzazione della seta; in quest’attività egli operava come procuratore di Giovan Battista Raggi, appartenente al grande mondo imprenditoriale e finanziario degli hombres de negocios genovesi legati alla monarchia asburgica che celebrano alla fine del Seicento i loro ultimi fasti.
Grazie alle sue capacità imprenditoriali Antonio accumulò un’ingente fortuna e nella sua triplice veste di produttore, mercante, cliente poteva perciò coprire il ventaglio dei suoi non comuni desideri.
Dalle lettere pubblicate da Vincenzo Ruffo all’inizio del Novecento emerge il dato che il committente discuteva con l’artista del soggetto e di ogni più minuto particolare dell’opera con competenza e passione. Il rapporto privilegiato lo ebbe però con Agostino Scilla di cui fu il patrono.
Nonostante le diverse posizioni politiche (il pittore sarà coinvolto nella rivolta antispagnola e finirà i suoi giorni a Roma nel 1700, due anni dopo essere entrato a far parte dell’Accademia di San Luca) tra l’ingegnoso e colto Scilla e il raffinato aristocratico Antonio Ruffo ci fu un costante e profondo dialogo che copriva l’ampio ventaglio di interessi presenti in casa Ruffo.
Chi più di Scilla, per i suoi interessi naturalistici, poteva condividerne la ricerca di cose rare e particolari, per indagare “nel grande libro della natura”?
Il principe fu uno straordinario personaggio in cui si coniugavano prudenza in politica, abilità negli affari, notevole ricchezza, una grande passione per l’arte, la grande pittura in particolare di cui fu un vero e proprio intenditore, e ancora originalità di gusti, profondità di interessi. Il principe, definito da Giuseppe Giarrizzo «inquieto custode di una grande tradizione familiare e di un consistente patrimonio», sicuramente partecipò al clima di transizione dalla polimatia alla scienza che poteva rafforzare la verità cristiana suscitando la meraviglia di fronte all’armonia e all’ordine del creato. La sua “curiosità” lo spingeva a mettere in campo le «più esquisite diligenze» per cercare ciò che lo attraeva: un dipinto, un disegno, un tappeto, un arazzo, un gioiello, perfino un “unicorno” che comprò da una nave attraccata al porto di Messina e proveniente dal Levante.
Per tutto ciò si avvaleva della vasta rete di familiari, parenti, amici, agenti siciliani, italiani, fiamminghi, perfino di religiosi con cui faceva affari mentre contattava i maggiori artisti.
Da oculato amministratore del suo patrimonio, Antonio non trascurò il proprio tornaconto finanziario nell’acquisto di un opera d’arte o di un oggetto raro, consapevole che si trattava di validi investimenti. Grazie alla sua straordinaria Wunderkammer la fama del principe della Scaletta è giunta fino a noi.