La sfida è quella di concepire una storia ‘à la mesure du monde’, per rielaborare la richiesta che Aimé Césaire pose all’umanesimo europeo. Siamo abituati, nella tradizione europea, ad affrontare la questione in termini di un’estensione che muove dal centro occidentale verso il resto del pianeta. Si crea, inevitabilmente, una serie di problemi, suggerendo che ci sia qualcosa di esterno alla storia, almeno per quanto riguarda la ‘nostra’ storia, con il corollario che il mondo non occidentale fosse senza storia fino al nostro arrivo. Questo è chiaramente senza senso. La narrazione del passato, anche se non risponde ai criteri disciplinari della storiografia moderna (disegnata, spesso acriticamente, sulla scia del positivismo ottocentesco), è un universale nella costituzione di tutte le formazioni culturali e della loro organizzazione politica, non importa quanto ‘primitivo’ si possa considerarlo. Tutto è contenuto nella storia come organizzazione spazio-temporale dei processi di significazione e interpretazione.
Tali credenziali antropologiche, tuttavia, sfiorano e disturbano la ‘storia del tempo storico’ come avrebbe detto Reinhart Koselleck. Il modello di estensione della storia europea, dell’umanesimo e della modernità, che si allunga per appropriarsi e inglobare il mondo è, dopotutto, il modello e la spiegazione dominante. Eppure, fin dall’inizio, la storia moderna ha fatto appello a una struttura mondiale per radicare la sua validità e misurare il suo ‘progresso’. In altre parole, se ‘all’inizio tutto era l’America’ (John Locke) per essere scoperto e rivendicato, ‘l’epoca del mondo quadro’ (Martin Heidegger) inaugurò dopo il 1492 la necessità di pensare al mondo nella sua circonferenza planetaria che sosteneva una nuova cornice per le analisi della storia e la sua interpretazione. Trasformare il mondo nello specchio dell’impegno europeo era chiaramente non solo un esercizio intellettuale. La spinta a soggiogare e conquistare il resto del mondo non è mai stata semplicemente una questione militare o economica, né un momento cronologico.
Forse ciò che troviamo più difficile da digerire è l’intricato intreccio di questioni culturali, economiche e politiche in una formazione storica così potente da avere storicamente subordinato, assorbito, negato, spesso sradicato e eradicato, altre formazioni. Riconoscere che per la maggior parte del mondo dal 1500 in poi la modernità era in primisil colonialismo europeo, e che il capitalismo forniva sia il suo motore sia la sua economia morale, significa riaprire l’archivio che abbiamo ereditato e ragionare con un passato che continua ad accumularsi nell’interrogativo del presente.
Qui sta la sfida di ogni eventuale storia del mondo. Se le operazioni storiografiche dell’Euro-America ci hanno portato a questo punto, ponendo queste domande, abbiamo almeno iniziato a considerare come siamo collocati e cosa autorizza la nostra voce come storici, europei e occidentali. Al di là di tutte le specializzazioni e le raffinatezze della ricerca storica – dalla storia coloniale, storie subalterne, studi di genere e oltre – è importante registrare la stessa storia in termini di una serie di limiti. Questo non significa ritirarsi dalla sfida o buttare a mare il nostro modo di ragionare storico, per quanto egemonico e sicuro di sé. Ma significa intersecare il suo proprio linguaggio e lessico con quelle questioni storiche che sono state strutturalmente escluse ed estirpate affinché la sua configurazione del passato passi come unica nella sua universalità.
Questo è dove la storia incomincia a superare i confini stretti della disciplina. Per tornare ad Aimé Césaire, una storia mondiale posta in questi termini ci spinge ad affrontare la nostra formazione storica. Quest’ultimo non è un oggetto di analisi neutra o ‘scientifica’, ma piuttosto un potere mondano ed egemonico che ci forma e ci produce soggettivamente. Allo stesso tempo, è uno spazio planetario abitato da altre storie, altre culture e altri corpi che non necessariamente riflettono né rispettano la nostra visione e versione del mondo: sia il suo passato che il suo presente. Qui, e per concludere, l’archivio storico globale, ancora da registrare, negoziare e configurare, non è un affare chiuso. Piuttosto, come cantiere o opera aperta, ci sfida con un futuro che non è solo il nostro da definire e gestire. Forse è qui, nello slittamento dalla nostra definizione ereditata della nostra ‘storia globale’ a quella più ampia e aperta delle ‘storie del mondo’, dalla nostra contabilità di tempo-spazio a un inquadramento più complesso ed eterogeneo dove la nostra non è l’unica voce, che la sfida critica apre davanti a noi.