Le riflessioni che seguono si concentrano su alcuni aspetti della cartografia e della cosmografia quali punti di osservazione privilegiati per ricostruire alcune dinamiche culturali centrali nel passaggio dal medioevo all’età moderna. L’analisi prenderà in considerazione i principali processi di trasformazione che hanno caratterizzato tali campi del sapere, lungo un periodo di quattro secoli, dal 1200 al 1600, al fine di meglio mettere in evidenza le continuità e i cambiamenti nei sistemi di conoscenza, ma soprattutto la genesi della modernità, quando i luoghi divennero spazio.
L’età moderna – scrive Franco Farinelli – “è il luogo di nascita dello spazio”. Riprendendo gli studi del medievista Paul Zumthor, sottolinea come “nel medioevo non c’era spazio, non perché le cose non si misurassero, anzi, proprio per il contrario: nel medioevo tutti quanti avevano le proprie unità per misurare il mondo; ogni città, ogni luogo aveva le proprie misure. Lo spazio significa un’altra cosa, esso implica lo standard, il che significa che la stessa misura si applica dappertutto indipendentemente dalla natura del contesto, cioè indipendentemente dalla natura dei luoghi”. Questa riflessione è funzionale all’inquadramento delle tematiche che intendo affrontare.
Fino al XII secolo, la cosmografia cristiana medievale era basata su due assunti principali: 1) il numero dei popoli che abitvano l’ecumene era stato stabilito definitivamente in seguito al diluvio; e 2) il mondo abitato e i suoi popoli erano stati descritti in forma esaustiva dai geografi greci e romani. Dal 1250 circa, questi due assunti furono messi in discussione da alcuni processi concomitanti, che abbracciano orizzonti diversi della storia della cultura, dell’economia, della scienza e della tecnologia, la cui sinergia, a partire del Cinquecento, avrebbero contribuito a plasmare le principali civiltà urbane, per la prima volta tra loro connesse, a scala globale.
A partire dal XII secolo, scoperte letterarie di opere cosmografiche classiche, a lungo dimenticate, tradotte in latino, dapprima dall’arabo e successivamente dal greco – in particolare, il cosiddetto corpus aristotelicus –, posero le basi per una rinnovata comprensione e descrizione del mondo sublunare e celeste attraverso procedure matematiche e geometriche. All’inizio del Quattrocento, nel contesto dell’Umanesimo, una seconda fase di questo processo prese forma tra Costantinopoli, Venezia, Firenze e l’itinerante Curia pontificia, con la riscoperta e la traduzione in latino, dal greco, della Geographike uphégesis (Guida alla cartografia) dello scienziato alessandrino Claudio Tolomeo (II sec. AD). Le traduzioni latine della Geografia e la preparazione di nuove carte graduate contribuirono a far emergere e precisare il concetto moderno di spazio, da intendersi come processo di misurazione normalizzata e di potenziale trasformazione in carta piana dell’intera superficie del globo, indipendentemente dalla porzione di globo conosciuta. Quest’ultimo aspetto è ciò che davvero distingue il paradigma ecumenico della geografia antica – interessata alla sola parte conosciuta e ritenuta abitabile del globo, appunto la oikumene – da quella universale dei moderni. Tale concetto di spazio si affermò anche perché attecchiva su una base di saperi che si erano andati configurando a partire dal secolo precedente.
Durante il XIII secolo, infatti, diverse città portuali della penisola italiana e della costa catalana divennero lo scenario di una vivacità culturale che riusciva ad articolarsi in una molteplicità di ambiti della conoscenza. I ceti mercantili che si esprimevano in lingue volgari, padroneggiando saperi che Carlo Maccagni definiva “dei tecnici”, l’apparire e il diffondersi dei portolani, delle carte nautiche, della bussola e di altri strumenti sia di misura, sia di rendicontazione finanziaria, così come l’evoluzione tecnologica delle navi e delle vele, agevolarono la creazione di reti marittime e consolidarono commerci che a partire dal bacino del Mediterraneo si propagarono al Mar Nero, al Caspio, abbracciando a ovest anche le coste atlantiche dell’Europa.
Teoria e pratica si intrecciarono in maniera insolubile e trovarono una chiara espressione in alcuni fenomeni che si verificarono a partire dalla metà del XIV secolo: l’interruzione delle articolate vie carovaniere che dall’Antichità univano l’ecumene greco-romana con la tianxia cinese, a seguito della caduta della Dinastia Yuan e il frazionamento dell’Impero mongolo seguito all’avvento della Dinastia Ming nel 1368; la coeva ricerca di nuove rotte marittime lungo le coste occidentali e meridionali africane e nell’Atlantico, a partire dalla riscoperta delle Canarie guidata da Lanzarotto Malocello nel 1312. In entrambi i casi, ci confrontiamo con avvenimenti che ebbero come principale conseguenza l’apertura mentale verso mari precedentemente considerati inaccessibili.
La sinergia tra questi processi di lungo periodo avrebbe profondamente trasformato la concezione, le forme di esperire e rappresentare il mondo da parte di molteplici ed eterogenee comunità di interpretazione: studiosi e letterati, membri degli ordini religiosi e missionari, laici delle classi urbane, mercanti, navigatori, banchieri, soldati.
Se da un lato la sedimentazione di queste conoscenze e pratiche ha reso possibile la via occidentale alle Indie,dall’altro ha implicato anche una nuova percezione e rappresentazione dell’Africa e dell’Asia. Su questo aspetto vorrei soffermarmi nella seconda parte di questa riflessione.
La più complessa visione cosmografica dell’Asia redatta in Europa prima delle navigazioni portoghesi venne preparata a Venezia intorno al 1450 da Fra Mauro († c. 1459), un converso del monastero camaldolese di San Michele di Murano. Tramite le opere di Marco Polo, Odorico da Pordenone, Niccolò de’ Conti, la testimonianza orale di chi “avea visto a ochio” e una revisione critica della Geografia di Tolomeo, Fra Mauro accoglieva importanti novità geografiche, per il disegno delle coste e delle regioni etiopiche in Africa, per il Cathaio e il Mangi, le isole delle spezie e definiva con soprendente chiarezza tre principali circuiti commerciali che da Giava si irradiavano nell’Oceano Indiano. Fra Mauro ipotizzava che l’Oceano Indiano e i grandi porti di Zayton e Giava potessero essere uniti al Mediterraneo attraverso un’unica rotta che circumnavigava l’Africa. Attraverso un inedito uso progettuale della cosmografia e della cartografia, il camaldolese immaginava e progettava rotte commerciali marittime, lungo le coste africane, verso e nell’Oceano Indiano, che testimoniano la crescente importanza che la navigazione assumeva ben al di là delle rotte mediterranee. Poco prima di morire, tra il 1457 e il 1459 Fra Mauro preparò una copia della sua mappa mundi per la corte portoghese di Afonso V (1432-1481), re di Portogallo e Algarve, ora perduta, che tuttavia ha la funzione iconica di rappresentare l’imminente passaggio del baricentro marittimo dalle signorie italiane alle corone iberiche.
In concomitanza con le prime navigazioni oceaniche, per provvedere alla logistica delle navigazioni e dei commerci, le due corone iberiche si erano dotate di organizzazioni centralizzate quali la Casa da Índia e da Guiné di Lisbona (c. 1450) e la Casa de la Contratación a Siviglia (1503). Le due istituzioni avevano anche lo scopo di raccogliere, organizzare e interpretare una massa cospicua di informazioni cosmografiche e cartografiche, spesso contradditorie e incerte, che provenivano dai primi viaggi oceanici e integrarle nel padrão real (padrón real, in spagnolo). Si trattava di sintesi cartografiche segrete, continuamente aggiornate, attraverso le quali non solo si rappresentavano le nuove scoperte, ma si progettavano i viaggi e si istruivano i piloti.
Nel caso specifico delle regioni asiatiche – dunque i territori assegnati alla Corona Portoghese dal Trattato di Tordesillas (1494) poi perfezionato a Saragozza (1529), a seguito della prima circumnavigaione del globo di Fernão de Magalhães e Juan Sebastián Elcano (1519-1522) – Lisbona divenne un centro di aggregazione e diffusione europea di conoscenze geografiche accumulate in Asia nel corso di molti secoli, sopratutto nel contesto delle più antiche e consolidate navigazioni che legavano l’Egitto, la Persia e l’Arabia con l’India, l’Indocina e la Cina, attraverso reti commerciali marittime, gestite da famiglie ebraiche e islamiche, almeno dal IX secolo. Questo è uno dei fattori che spiegano la rapidità dell’espansione portoghese nell’Oceano Indiano. Il ricorso alla guerra navale, sconosciuta nell’Oceano Indiano prima dell’arrivo dei portoghesi, e l’impiego di piloti locali che insegnarono le rotte e i regimi dei venti monsonici, imprescindibili per attraversare gli spazi oceanici e gli strettti furono due elementi strategici per la nascita e l’affermarsi dello Estado da Índia, un vastissimo spazio marittimo, interconnesso da rotte che legavano le coste etiopiche con l’India fino al Giappone, via Malacca e Macao, attraverso le naus de trato.
Nel quadro delle attività mercantili e militari d’oltremare portoghesi, l’occupazione territoriale era limitata a poche città portuali e fortezze, strategiche per l’organizzazione e la logistica dei commerci. Questo implicava una necessità di conoscenza dei territori interni molto limitata, che si riduceva a specifiche località costiere e insulari dotate di porti marittimi o fluviali, già inserite o da inserire in reti si scambio a lunga distanza. Dalla metà del Quattrocento, i portoghesi fondarono, ad esempio, le feitorias nell’isola di Arguin, São Tomé e Principe, e Cabo Verde; costruirono le città fortificate di São Jorge da Mina, Luanda e Ilha de Moçambique, in Africa. Nel Golfo Persico costruirono le fortezze di Hormuz e Aden. In India, dal 1510 circa, conquistarono le città di Goa, Cochin, Diu, costruendovi, olre alle fortezze, anche le chiese, distruggendo i templi induisti. Come ben mostra la cartografia portoghese del tempo – ad esempio, i planisferi del Cantino (1502), di Caverio (1504), di Bartolomeu Velho (1560 ca.) di Lopo e Diogo Homem (1564), i cosiddetti atlanti di Fernão vaz Dourado (1568-1580 circa), le numerose mappe e planisferi di Luís Texeira (circa 1580-1600) o lo straordinario, quanto eloquente Livro das plantas de todas as fortalezas di António Bocarro (1635) – tra XVI e XVII secolo l’espansione portoghese e poi Europea in Africa e in Asia poggiava su uno spazio marittimo reticolare, sostanzialmente privo di una dimensione territoriale nelle regioni interne.
Dal 1515 circa, i capitani e mercanti portoghesi, spesso operando con equipaggi indiani, malesi o cinesi, con navi o giunche spesso costruite a Goa o in Insulindia, si inserirono e fecero da tramite nei mercati intra-asiatici, come quello assai redditizio dell’argento giapponese proveniente dalle nuove miniere di Ikune e Iwami Ginzan e della seta cinese, tra il Giappone (dai porti di Hirado e, dal 1569, Nagasaki) e la Cina (via Canton, attraverso la città portuale fortificata di Macau, appunto fondata dai portoghesi nel 1557 sub auctoritate cinese, per sostenere il commercio tra la Cina e il Giappone). Solo una parte assai ridotta degli scambi gestiti dai Portoghesi nel Mar della Cina e nell’Oceano indiano era destinata al lontanissimo Portogallo, distante oltre due anni e mezzo di navigazione, dal Giappone, circa un anno, un anno e mezzo da Macau, un anno da Malacca e almeno sei mesi (percorribili solo una volta all’anno, per via dei monsoni) da Goa.
Nel quadro di questa complessa geopolitica globale di conquiste, scambi e commerci, furono gli ordini religiosi, in particolare i Gesuiti che, nel contesto delle missioni in Asia, introdussero un cambiamento strutturale nel modo di rapportarsi alle complesse civiltà asiatiche, con importanti ripercussioni anche in termini di concezione, percezione e rappresentazione dello spazio. A differenza della nobiltà e delle comunità di mercanti e soldati portoghesi, gli ordini religiosi ambivano ad una penetrazione territoriale più profonda e articolata, ben oltre le città portuali e gli avamposti mercantili e militari, di fatto usati e pensati come punti di partenza e non certo come obbiettivi finali delle missioni. In altri termini, se dal punto di vista logistico, gli ordini religiosi, in primis i Gesuiti, dipendevano e si appoggiavano alle infrastrutture e alle navi dell’Estado da Índia e si dovevavo rapportare alla giurisdizione ecclesiastica del Padroado Português – dunque sulla territorialità politica e religiosa dell’impero portoghese a cui competeva la nomina dei vescovi e più in generale la giurisdizione ecclesiastica – il loro spazio di azione e ambizioni andavano ben oltre questi territori e giurisdizioni, raggiungendo, spesso in forma indipendente, regioni non incluse nell’Estado da Índia e nel Padroado, ad esempio i territori interni meridionali dell’India, negli attuali Kerala e Tamil Nadu (si pensi a Roberto de Nobili S.J.), piuttosto che il Giappone, la Cina e il Vietnam (si pensi all’opera pionieristica di Michele Ruggieri S.J. e Matteo Ricci S.J. a partire dal 1578 circa).
Inoltre, per quanto riguardava la mediazione economica, linguistica e culturale, i mercanti, i capitani e la nobiltà Portoghese si avvalevano di intermediari locali, africani, indiani, malesi, cinesi e giapponesi, generalmente di bassa cultura, chiamati língua, affidandosi principalmente alla potenza semantica universale delle ragioni di scambio e del capitale e, quando possibile o necessario, alla minaccia o all’impiego della guerra navale, come già messo in evidenza, un fondamentale elemento strategico all’origine della supremazia portoghese e successivamente olandese e inglese.
Ben diverse furono le strategie degli ordini religiosi nel confronto con le principali civiltà asiatiche. Prendendo ad esempio il caso del Giappone, non vi sono dubbi che fu la presenza della Compagnia a promuoverne il primo riconoscimento in quanto civiltà e non solo come favorevole interlocutore commerciale. Già a partire dal 1555, dunque a pochissimi anni dallo sbarco a Kagoshima nel sud del Kyūshū di Francisco Xavier che rimase in Giappone tra il 1549 e il 1552, spingendosi fino a Myaco (la “capitale”, dunque Kyoto), nel corso di circa quarant’anni, i gesuiti Balthasar Gago, Gaspar Vilela, Luís Fróis, Gnecchi-Soldo Organtino, Alessandro Valignano, João Rodrigues, solo per citare quelli più attivi, compirono un complesso processo di riconoscimento del Giappone come civiltà, studiandone il territorio, la lingua, le credenze e le religioni, i costumi e il cerimoniale (catangues, scriveva Valignano, dal giapponese kataji). Se si voleva davvero inculturare il cristianesimo e fondare una chiesa cattolica giapponese piuttosto che cinese, retta dal clero locale – questa era la convinzione del padre Visitatore Valignano – era necessario percorrerne le province, impararne e decodificarne la lingua, i sistemi di credenza, i costumi, il cerimoniale, non per coglierne l’alterità, come certa storiografia anacronistica continua a ripetere, con retorica e immaginario agiografici, bensì per fare emergere il “cristiano” celato nell’Altro.
Ciò detto, tra il 1549 circa e il 1614, data dell’espulsione dei Gesuiti dal Giappone, le numerose lettere individuali, poi le Litterae annuae, le monumentali storie della missione del Giappone (la História do Japão e il Tratado [das] algumas contradições e diferenças de costumes entre a gente de Europa e esta província de Japão di Luís Fróis, gli Advertimentos e avisos acerca dos costumes e catangues de Japão e El sumario de las cosas de Japón di Alessandro Valignano, la História da Igreja do Japão di João Rodrigues), ma anche altre due opere fondamentali di Rodrigues, la Arte da Lingoa de Japam e la Arte breve, che codificarono l’insegnamento della lingua giapponese, mostrano in tutta la sua complessità lo sforzo di ascolto, di osservazione, di decodifica culturale (e i malintesi) che sorsero nell’incontro. Nelle pratiche missionarie e nel loro racconto, anche al fine di propaganda presso il pubblico europeo, i Gesuiti implicitamente costruirono una complessa geografia culturale della civiltà giapponese (così come della Cina e di altre civiltà asiatiche), a partire da agenti, intermediari e fonti locali.
È su queste basi che nuove spazialità – delle lingue, delle religioni, dei costumi – emersero in Europa nella prima età moderna. Ed è solo grazie a queste basi che esperienze di viaggio apparentemente sovrapponibili – Marco Polo e Matteo Ricci S.J giunsero entrambi a Pechino – divennero espressione di una conoscenza e consapevolezza radicalmente differenti. Basti ricordare che laddove Polo solo riconosceva “lingue per sé” e “idolatrie”, Ricci riconosce e si confronta con il cinese e i complessi sistemi di credenza e di pensiero cinesi. Rigide cesure cedono dunque il passo a osmosi e ibridismi, così come l’osservazione acquisisce importanza perché propedeutica alla comprensione. Di spazi, e di tutto ciò che in questi spazi interagisce.
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