Volti sereni, slanci eroici, infiniti dolori: sfidando il tempo, le statue dichiarano l’invulnerabilità dei loro sentimenti, protetti dalla pelle levigata, ora in marmo luminoso ora in severo bronzo. Aere perennius, più duraturo del bronzo, diceva Orazio della sua opera, della sua gloria destinata a superare l’effimera, dal suo punto di vista, pretesa di ciò che nel bronzo, appunto, fosse stato realizzato. Le statue sono, dunque, per tradizione il simbolo della immutabilità. Eppure esse oggi conoscono una vita agitata, dividono con noi le ansie di un tempo che, incapace, forse, di organizzare il futuro, ha deciso di riorganizzare a suo piacimento il passato.
Non che questo non sia mai accaduto. Durante la Rivoluzione francese la ghigliottina lavorò sulle teste di pietra dei suoi antichi sovrani con non minore accanimento di quanto facesse per le teste dei suoi nemici. Ora, però, di rivoluzione non sembra esserci alcuna, visibile traccia sul pianeta e i sommari processi popolar-mediatici ai quali seguono puntuali decapitazioni, non sembrano animati dal desiderio di un radioso futuro, non segnano il nitido anno-zero di una umanità sulla soglia della redenzione. Hanno vacillato a New York e in altre città americane, le statue di Cristoforo Colombo, reo di avere “scoperto” un continente che ne avrebbe volentieri fatto a meno. Poche settimane fa il presidente ungherese Orban ha deciso di rimuovere, dal luogo dove è oggi collocata, la statua di Imre Nagy, un leader comunista al quale non ha evitato la proscrizione neppure l’eroico comportamento durante l’insurrezione di Budapest nel 1956 e la condanna a morte subita poi da un Tribunale comunista. Il problema – hanno spiegato i giornali – è che Orban ha in mente un progetto di trasformazione della storica piazza dove è collocata la statua che la riporti al volto che essa mostrava prima del comunismo e prima del nazismo. Una sorta, insomma, di giardino d’infanzia della memoria, dove si gioca a dimenticare, e di un intero secolo, il Novecento, come l’orco cattivo delle favole, si fa finta che non sia mai esistito.
A questo destino innocente e terribile come sono i bambini quando si arrabbiano, frutto di una infantile ostinazione a volere che il passato, come il presente (ma per il presente è molto più complicato, ovviamente) rassomiglino a noi e soltanto a noi, non si sottrae la recentissima, casalinga vicenda della statua di Cialdini all’interno della Camera di Commercio di Napoli. Enrico Cialdini, fervoroso patriota emiliano, esule dopo la fallita rivoluzione del 1831, combattente del Quarantotto e della guerra di Crimea, devoto generale di casa Savoia, duca di Gaeta in ricordo della sua impresa militare più celebre, il vittorioso assedio, cioè, di quella che dopo l’impresa dei Mille rimase l’ultima roccaforte della resistenza borbonica, fu già ai suoi tempi discusso per l’accanimento con il quale combatté quella che egli stesso, in una lettera del luglio 1862 definisce “una guerra civile”. Le rappresaglie di Casalduni e di Pontelandolfo non furono certo, già nel giudizio dei contemporanei, pagine luminose della lotta risorgimentale e con molta fatica vennero allora ascritte alle conseguenze di una azione condotta contro chi minacciava l’Unità appena raggiunta e le ragioni profonde, di libertà e di mutamento sociale, per le quali tantissimi, tra gli stessi meridionali, avevano combattuto.
Libertà e progresso sociale quei tantissimi meridionali prima che al re di Torino le avevano chieste al re di Napoli e non le avevano avute. Videro che in Piemonte c’erano un Parlamento e una Costituzione, videro che si costruivano ferrovie vere e non quelle “giocattolo” che arrivavano fino a Portici, che gli analfabeti erano poco più del 50% della popolazione invece del 90 di casa loro, e pensarono che l’Italia andava fatta con un sovrano e un esercito diversi da quelli che loro, i loro padri, avevano servito con orgoglio fino ad allora. Se da questo ne derivò una storia difficile, tra il Nord e il Sud, dove l’uno ebbe sempre la tentazione di sentirsi vincitore sull’altro, non è al re di Torino che si deve chiedere il conto principale, ma a quello che a Napoli esitò e non volle provare a farsi “vincitore”.
Se poi tutto questo non piace, allora bisogna andare oltre. Non è la statua di Cialdini a opprimerci con il perdurante ricordo della “oppressione” sabauda. Bisogna abbattere il bell’edificio umbertino che la contiene, distruggere la piazza nella quale esso è armoniosamente disegnato con l’insieme dei palazzi intorno, eliminare il “Rettifilo”, come i napoletani chiamano la via che unisce quella piazza alla Stazione ferroviaria e che reca il nome, appunto, di un esecrato sovrano sabaudo. Questi sì, sono i vistosi, quotidiani segni del duro giogo al quale siamo stati sottomessi da un secolo e mezzo. Torniamo, piuttosto, alla Napoli incontaminata di prima che tutto questo accadesse. La Napoli del colera, dei fondaci oscuri raccontati dalla Serao, dei vicoli maledetti da Pasquale Villari nelle sue “Lettere meridionali”.
Il cupo Cialdini, già condannato dalla storia negli anni in cui egli stesso visse, è un facile bersaglio. Ma la memoria collettiva, quella che con il dolore di Casalduni ricorda anche gli insorti del Quarantotto fucilati per la via di Toledo e cento anni dopo (perché no?) i nove morti nelle manifestazioni del 1946 per la monarchia (Savoia), quella che fa spazio all’eroismo dell’ultima regina Borbone a Gaeta, ma anche a chi soffrì per anni nelle carceri di quegli stessi Borbone (a meno di non voler pensare che Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis, Carlo Poerio, fossero delle “madamine”, come si usa dire oggi, ante litteram) non è una cosa facile. È una cosa difficile e complicata: maneggiare con cura.