La capacità di agire delle donne concerne il riconoscimento di autonomia nell’esercizio dei diritti di proprietà e nella stipula di atti che registrano e certificano la disposizione di quei diritti. Quali atti patrimoniali può dunque compiere una donna liberamente e quali limiti e condizioni sono posti invece a controllo e supervisione di altri?
La questione appare a prima vista tecnica. Eppure le norme che dal medioevo in avanti sono formulate nelle diverse realtà urbane e statuali italiane sono di particolare importanza, e per più di una ragione. Dal punto di vista della condizione giuridica delle donne, i limiti alla capacità di agire e le procedure individuate per consentire alle contraenti di procedere alla stipula di atti si coordinano con le due forme di trasmissione dei beni: l’esclusione femminile dalla successione legittima e l’istituto della dote, e danno vita a un sistema coerente, e in tale prospettiva vanno considerate. Questo sistema, dotato di formidabile coerenza, impedisce, in via di principio, che nelle donne della famiglia si accumulino capitali; preserva la dote che, per le peculiarità giuridiche che la contraddistinguono, segue regole di disposizione proprie e non è nel libero possesso della dotata né del marito; subordina a controlli e autorizzazioni la disponibilità dei patrimoni, grandi o piccoli, che le donne possono acquisire.
Il sistema si nutre di ambivalenze. Per quanto riguarda la capacità di agire, l’irrisolvibile contraddizione consiste innanzitutto nel fatto che le disposizioni normative sono da intendersi non come divieti secchi bensì come procedure attraverso cui le proprietà femminili sono gestite e impiegate in operazioni concrete e valide da parte delle titolari. Come precisa una quaestio di Castiglione alla fine del Trecento, si tratta di disposizioni «induttive» e non proibitive delle alienazioni. L’autorizzazione maritale e la cura sexus sono le coordinate generali entro cui si dispongono le varianti (http://www1.unipa.it/storichedeldiritto/Materiali/DOSSIER/FECI.html). I vincoli riguardano sempre la donna sposata che ha bisogno del consenso del marito per disporre dei propri beni. Tuttavia, la complessità della costituzione, della composizione e della trasmissione dei patrimoni familiari e la mobilità che le donne sperimentano tra i lignaggi cui appartengono per nascita e per matrimonio, oltre alla crescita dei diritti dei mariti sulla dote della moglie nel corso del medioevo, inducono i consanguinei delle contraenti a svolgere un ruolo di controllo sugli atti di alienazione e di obbligazione che le congiunte possono sottoscrivere. Da qui, dunque, derivano quelle norme che prevedono che i contratti delle donne sposate siano autorizzati da un curatore o dai parenti più prossimi, specie se nell’atto è interessata la dote, per evitare che i mariti esercitino un’indebita forzatura sulla volontà della moglie. In questo quadro, la nubile – non più soggetta alla patria potestà – e la vedova sarebbero quindi ritenute pienamente capaci e libere di disporre dei propri beni. Esiste però anche un altro modello, quello che identifica tutte le donne, in quanto donne, come «incapaci» e, al pari dei minori e di altri soggetti «deboli», bisognose di tutela: la procedura, in questo caso, mira a colmare il deficit naturale di capacità, si estende a ogni donna e assomma il consenso e l’autorizzazione dell’eventuale marito, dei consanguinei e del magistrato. È possibile, quindi, che un uomo, solo in quanto tale e quindi anche estraneo alla contraente, intervenga insieme con il magistrato a fornire l’autorizzazione necessaria all’atto.
Nel percorso di costruzione dei generi, dunque, queste norme rivestono una particolare importanza sia perché definiscono l’identità giuridica delle donne, sia perché illuminano il sistema dei diritti di proprietà, le relazioni coniugali, le reti di parentela e la posizione che vi occupano le donne, le politiche che i poteri pubblici attuano nei confronti delle famiglie elaborando le norme e districandosi nella selva del contenzioso. In effetti, più le procedure previste sono complesse, più tentano di conciliare il controllo sulle donne e la salvaguardia della loro volontà dagli abusi e dalla circonvenzione di mariti e profittatori, più è facile invocare il vizio di forma e chiedere l’annullamento dell’atto sottoscritto a detrimento di una controparte che quelle stesse procedure avrebbero voluto e dovuto cautelare. Le stesse eccezioni che le normative talora prevedono offrono una prospettiva interessante sui contesti peculiari, ad esempio quelli a più alta vocazione mercantile e marinara.
La lunga persistenza del meccanismo, seppure con le molteplici varianti e le modulazioni cronologiche, dall’età medievale al pieno Ottocento, e la difficoltà di sottrarre definitivamente le donne dalle pastoie di inibizioni e controlli fino al 1919 stanno a dimostrare il rilievo di questi dispositivi normativi. Possiamo allora chiederci: il sistema patriarcale, che ispira e a sua volta trae alimento anche da queste norme apparentemente accessorie, quanto conta o quanto dovrebbe contare nella definizione delle scansioni periodizzanti, nella ridiscussione dei canoni storiografici, ripartizione interna alle discipline storiche?