La definizione storiografica dell’Italia costituisce un nodo controverso e di lunga data, sul quale ci si è interrogati, si può dire, fin dal Rinascimento, da quando Machiavelli, coniando l’espressione “Stato” in termini politici moderni, infiggeva «il palo principale di tutta la riflessione storico-politica italiana» (Barberis 2004, p. 11), e non solo. Nei secoli successivi fautori e avversari del segretario fiorentino usarono la «ragion di Stato» come metro di valutazione delle azioni dei principi, che rimasero, nella nostra Penisola, caratterizzate da una grande discontinuità e frammentarietà. I territori italiani – geograficamente parlando – non espressero, infatti, per lungo tempo un soggetto politico in grado di rendersi del tutto autonomo dall’influenza di altri (neppure gli Stati sabaudi e la Repubblica di Venezia, pur politicamente indipendenti e dinamici, poterono mai agire da soli), giungendo così all’Ottocento – il “secolo delle nazioni” – con un forte bisogno di Stato-Nazione, che sostituisse le patrie e le nazioni ereditate dai secoli precedenti.
Fu così che, dall’Ottocento alla prima metà Novecento, maturò e si articolò il problema di che cosa comprendere nella storia d’Italia e da quando farla iniziare: un laboratorio di ricche e talvolta vivaci discussioni sulla legittimità o meno di usare una visione unitaria, sull’opportunità o meno di restituire un unico panorama a soggetti politici preesistenti al processo dell’unificazione risorgimentale (Musi 2018).
La storia degli «antichi Stati italiani» si è stagliata con evidenza in tempi più vicini a noi, conoscendo, fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo che si è chiuso, una stagione di particolare fervore. Era una definizione apparentemente fuorviante per gli storici dell’età moderna, poiché venivano definiti «antichi» alcuni Stati che pure avevano prodotto alcune importanti trasformazioni rispetto all’assetto politico dell’Italia medievale. La denominazione serviva, tuttavia, per sottolineare le differenze rispetto al risultato della formazione di uno Stato unitario.
Difficile restituire in breve la polisemia, le basi metodologiche, le prospettive d’indagine della storia degli antichi Stati italiani. Ne sono certamente nati non pochi aggiornamenti nel lessico storiografico e proposte di periodizzazioni più flessibili che in passato rispetto a quelle modellate sulle vicende delle grandi monarchie europee o sulle storie dei singoli Stati (G. Greco e M. Rosa 1996). Ne è emersa, sul piano della ricerca, la valorizzazione di uno straordinario e variegato patrimonio documentario conservato nei numerosi archivi di cui è disseminata la Penisola. Ne è scaturita un’analisi attenta della società italiana d’antico regime: le modalità economiche, politiche, culturali, religiose, demografiche e sociali del rapporto fra città e campagna, fra chierici e laici, fra il civile e il “militare”, fra ceti dominanti, aristocrazie, patriziati e ceti subalterni (Mozzarelli e Schiera, a cura di, 1978). Si sono approfondite intersezioni di Stati negli Stati, come i feudi papali e imperiali incastonati a lungo fra strutture politiche da tempo indipendenti (Torre 1986; Cremonini e Musso, a cura di, 2010; Bellabarba e Merlotti, a cura di, 2014; Bianchi 2015). Si è superata la visione della storia italiana in termini di sola alterità e contrapposizione rispetto alle dominazioni delle corone straniere, assimilando alcune aree della Penisola alle sfere d’influenza di grandi «Stati compositi» come la Spagna e l’Impero asburgico (Villari 1977; Spagnoletti 1996; Merlotti 2007). Si sono confrontate le forme di dinamicità statuale studiando scambi finanziari, intrecci fra sfera pubblica e sfera privata e i riflessi prodotti da ciò sulla società cetuale (Stumpo 1979 e, a cura di, 1981; ora Stumpo 2015). Si è usciti da un quadro semplicemente conflittuale fra giurisdizione statale e giurisdizioni feudali (Berengo 1965; Donati 1988), fra autonomie e dipendenze, analizzando diverse pratiche, sfuggite a quelle rappresentazioni che avevano restituito l’immagine di un lungo e indistinto Medioevo o di cesure nette create dalla nascita della “burocrazia” dello Stato moderno (Calonaci 2017). Si è smussata o meglio definita quell’eccezione sabauda, rispetto al tessuto politico-sociale peninsulare, che nasceva in gran parte da una lettura condizionata del modello dello Stato-nazione (Bianchi, a cura di, 2008; Bianchi e Merlotti 2017). Con un’intensificazione nella produzione degli ultimi anni, si sono ricostruite reti clientelari che la dimensione tradizionale dello Stato moderno o Stato assoluto non era riuscita a includere, e che si possono spiegare legandole ai sistemi di patronage e talvolta di fedeltà molteplici di natura curiale e dinastica che non erano disgiunti dalla crescita degli Stati nel corso dell’antico regime.
Ripercorrere i rapporti fra gli antichi Stati italiani ha contribuito, inoltre, a restituire peso a secoli come il Quattrocento e il Seicento (Mirri 1992); a indagare comparativamente il mutamento delle forme istituzionali (apparati statali e locali, rappresentanze di corpo e territoriali) nella transizione italiana dall’età delle riforme, a quella napoleonica e allo stato di diritto ottocentesco (Meriggi 2002); a dare risalto a oggetti di studio che erano stati a lungo trascurati o sottovalutati in ambito accademico come la storia militare (Pezzolo, a cura di, 1995; Donati 1996 e 1998; Del Negro, a cura di, 2002; Bianchi e Labanca, a cura di, 2014; Bianchi e Del Negro, a cura di, 2018).
Negli ultimi quaranta-cinquant’anni, sono stati certamente molti altri gli spunti offerti dalla storiografia che ha parlato di «antichi Stati» affrontando il binomio unità-diversità, le anomalie, ma anche le analogie della storia italiana rispetto alle vicende europee. Molti di quegli spunti sono racchiusi nella storia redazionale di alcune grandi imprese collettive: la Storia d’Italia Einaudi, aperta dal denso volume su I caratteri originali (1972), la Storia Utet diretta e introdotta da Giuseppe Galasso in L’Italia come problema storiografico (1981), la serie Istituzioni e società nella storia d’Italia de il Mulino a cura di Ettore Rotelli, con i fondamentali contributi di Giorgio Chittolini (a cura di, 1979) e di Elena Fasano Guarini (a cura di, 1978). Altre collane recentemente hanno voluto riprendere il filone della storia degli antichi Stati rivolgendosi a un pubblico vario: non solo gli studenti dei corsi universitari, schiacciati ormai da un mortificante sistema di crediti didattici che ha penalizzato lo studio di ampie monografie lasciando le briciole alla storia nazionale, ma anche lettori interessati a sintesi scientifiche storiograficamente aggiornate e non semplicemente ripetitive (penso alla collana avviata da La Scuola e proseguita da Morcelliana: Gullino 2010; Pagano 2010; Musi 2016; Bianchi e Merlotti 2017).
Restano vitali i dibattiti che hanno alimentato tanti filoni di ricerca inscritti nel solco della storia degli antichi Stati italiani? La permanenza fino a oggi di un certo numero di cattedre universitarie così intitolate offre già una prima concreta risposta. Ma come leggere le potenzialità ancora aperte, come pensare di attrarre nuove energie verso questo tipo di indagini? Azzardo a dire che la storia degli antichi Stati ha continuato a riscuotere l’interesse degli storici perché ha saputo intercettare, negli ultimi decenni delle vicende nazionali, alcuni grossi snodi del dibattito pubblico. Si è trattato, fra gli anni Sessanta e Settanta, di affrontare la questione del ruolo svolto dai ceti dirigenti nella loro variegata composizione a seconda degli spazi e dei tempi della storia peninsulare; e ancora, dagli anni Settanta, di saggiare la bontà o meno del concetto di «Stato regionale» o «territoriale» (Fasano Guarini 1994; Chittolini 1996) quando veniva attuato e si consolidava l’ordinamento delle Regioni italiane come soggetto politico e quando i geografi umani, con una nuova sensibilità per il territorio come patrimonio storico-ambientale, parlavano di «regioni funzionali» (Gambi 1972). Fra le ragioni della fortuna della storia degli antichi Stati italiani, poi, non va taciuto il permanere, sotto il velo della nazione italiana (rivelatosi non troppo resistente alle prove degli ultimi decenni), dell’attrazione offerta da patrie che non di rado hanno assunto, almeno nella memoria, il carattere di nazioni.
Se è vero, infine, che la storiografia ha perso le certezze novecentesche, portando gli storici a prendere le distanze da molte implicazioni ideologiche legate al «moderno» e approdando a una storia dispersa in piste e rivoli solo a tratti convergenti, è però possibile credere che il panorama degli antichi Stati italiani, molteplice crocevia di tante culture, abbia ancora molto da dire a chi guarda a orizzonti di studio più vasti e attualissimi: la storia non dico globale (termine inflazionato da una retorica non meno dubbia di quella che pretenderebbe di sostituire), ma quanto meno mediterranea ed europea.
Bibliografia essenziale
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