Negli ultimi venti anni circa le espulsioni settecentesche, la soppressione canonica e la successiva restaurazione dei gesuiti sono state minuziosamente indagate dalla storiografia internazionale. A stimolare tale indagine ha certamente contribuito la lunga serie di ricorrenze ravvicinate che marcano la storia dei gesuiti tra la fine del XVIII secolo e l’inizio dell’Ottocento, a cominciare dai duecentocinquanta anni dell’espulsione dal Portogallo (1759-2009), passando attraverso il bicentenario della rinascita dell’Ordine (1814-2014) e giungendo al duecentocinquantenario dell’espulsione dalla monarchia di Carlo III (1767-2017). Tutti questi anniversari sono stati celebrati con un buon numero di convegni, seminari e atti pubblici i quali hanno solitamente prodotto altrettante pubblicazioni, soprattutto sotto forma di atti di convegni e siti internet tematici (come, ad esempio, Expulsión y exilio de los jesuitas de los dominios de Carlos III). In realtà le ricorrenze hanno alimentato una tendenza già in atto, le cui cause più profonde devono essere individuate nella diffusione, anche all’interno di questo specifico settore dei Jesuit Studies, degli approcci e tagli metodologici attualmente maggiormente in voga nel panorama storiografico internazionale come la World History, la storia delle emozioni e la storia di genere. Tali nuove prospettive, che si sono sommate ad approcci più tradizionali e a lungo praticati come la storia politica e quella della idee, compaiono in alcune recenti sintesi relative alla soppressione canonica del 1773 e al ristabilimento dell’ordine provenienti da alcuni dei massimi specialisti dell’antica Compagnia (Maryks, Wright 2014; Fabre, Goujon 2014; Burson, Wright 2015; Van Kley 2018) e in vari saggi contenuti nell’Oxford Handbook of the Jesuits curato da Ines Županov (2019).
Tra i tanti ambiti tematici di questa fase dell’Ordine di Sant’Ignazio oggetto di analisi, quello relativo all’esilio italiano dei gesuiti spagnoli e sudamericani espulsi (1767-1815) si è ritagliato uno spazio indubbiamente rilevante. Cercherò di offrire un quadro sintetico di alcune nuove prospettive di ricerca emerse da tale filone di studi, specialmente all’interno delle storiografie italiana e iberica.
Partendo dall’osservatorio italiano, si può osservare che, fino ad una quindicina di anni fa circa, gli studiosi avevano sottostimato l’impatto dell’arrivo dei gesuiti spagnoli sulla cultura e la società italiane. A parte le acute osservazioni che Franco Venturi, sulla scorta delle informazioni offerte dallo storico gesuita Miguel Batllori (1966), aveva inserito nel primo tomo del quarto volume di Settecento Riformatore (1984, pp. 239-328), l’esilio dei padri iberici era stato analizzato soprattutto da alcuni ispanisti nell’ambito della storia culturale (o di storia sociale della cultura) e, quindi, della letteratura (Guasti 2009). Per cui, fino a tempi piuttosto recenti, buona parte delle ricerche si è concentrata ad analizzare le attività intellettuali – più in concreto, le strategie culturali, editoriali e di autopromozione sociale – seguite dagli espulsi. L’origine dell’interesse storiografico su tali aspetti scaturisce essenzialmente dal fatto che essi furono un ponte tra culture diverse, almeno da un duplice punto di vista: oltre a ricercare una convergenza tra la tradizione cattolica e l’Illuminismo utilizzando una tecnica di ibridazione selettiva, tra la fine del Settecento e il primo ventennio del secolo successivo essi tentarono di stabilire una connessione organica tra la cultura ispanica (e sudamericana) e quella italiana. Analizzare i testi, le strategie e i network prodotti dai gesuiti, in primis da quelli spagnoli, nel corso della seconda parte del XVIII secolo significa aprire un osservatorio privilegiato per meglio comprendere e contestualizzare le ragioni sia dei “nemici dell’Illuminismo”, come anche dei sostenitori del cosiddetto “Illuminismo moderato”. Infatti, mentre un gruppo consistente di gesuiti di ogni Assistenza nazionale si oppose frontalmente e polemicamente ai Lumi, un altro settore cercò invece di dialogare con essi nel tentativo di “cristianizzarli”, con l’evidente scopo di limitare gli effetti politici della critica illuministica; tale duplice tattica di contenimento dell’Illuminismo continuò e, anzi, si potenziò a seguito della soppressione canonica, quando gli ormai ex gesuiti furono liberi di impegnarsi nei dibattiti che percorrevano la Repubblica delle Lettere europea poiché non più vincolati alle antiche gerarchie e alla censura dei superiori del disciolto Ordine (Bianchini 2006). Come hanno dimostrato, tra gli altri, Antonio Trampus (2000) per l’area tedesca ed austriaca e Patrizia Delpiano (2007, 2015) per quella italiana, dopo il 1773 gli ex gesuiti furono abilissimi nell’impossessarsi non solo di alcuni concetti e parole d’ordine della cultura illuminista, ma degli stessi luoghi della socialità (salotti, accademie, testate giornalistiche, tipografie, gabinetti scientifici, la massoneria) e dei generi letterari tipici dei Lumi (come il romanzo filosofico e l’enciclopedismo). Tale capacità di penetrazione e ibridazione, ovviamente, è stata esaltata dagli specialisti dell’“Illuminismo religioso” e, in particolare, dai nuovi sostenitori del “Catholic Enlightenment” (Delpiano 2019). Indubbiamente molti espulsi spagnoli e sudamericani, nonostante l’esibizione di un diffuso patriottismo filo-spagnolo, eccelsero nel maneggiare tale doppio registro “sincretico” (Ronan 1977, 2002; Mantelli 1987; Tietz 2001; Guasti 2006, 2017); anche nel loro caso, poi, la tempesta rivoluzionaria e napoleonica produsse un rapido riposizionamento in difesa del Trono e dell’Altare (Guerra 2004; Guerci 2008), tanto che la Compagnia di Gesù, una volta risorta come ordine, sarà la protagonista indiscussa della formazione dei ceti dirigenti della Restaurazione in tutta l’Europa cattolica.
Nell’avanzamento degli studi sui gesuiti iberici esiliati in Italia, una tappa importante è stata certamente il convegno tematico organizzato nel 2009 da Ugo Baldini e Gian Paolo Brizzi a Bologna, i cui atti apparvero l’anno successivo (Baldini, Brizzi 2010). In quella occasione, infatti, studiosi italiani di varie aree disciplinari (modernisti, storici della Chiesa, italianisti, ispanisti, storici della scienza) e alcuni specialisti spagnoli si sono confrontati tra sé e con importanti storici dell’ordine (Martín Morales, Marek Inglot, António Júlio Limpo Trigueiros). Da allora in poi, mentre i percorsi di ricerca più tradizionali hanno conosciuto un ulteriore potenziamento (Melai 2011; Piciulo 2012), si sono sviluppate nuove piste d’indagine – come quelle relative alla ricostruzione dell’esistenza quotidiana dei padri esiliati e al loro ruolo di mediatori culturali, in senso lato, tra il mondo ispanico e quello italiano – che stanno producendo risultati di grande interesse: penso soprattutto ai saggi di Maria Teresa Guerrini (2016, 2017) e di Elisabetta Marchetti (con Inmaculada Fernández Arrillaga, 2011, 2012). Una serie di successivi incontri italo-spagnoli, specificamente dedicati all’espulsione e all’esilio italiano dei gesuiti iberici o alle relazioni tra Italia e Spagna nel corso del XVIII secolo, hanno permesso di rafforzare tale sinergia tra i ricercatori delle due aree (si veda, ad esempio, Fernández Arrillaga et alii 2018).
Passando alla storiografia iberica, meraviglia constatare che neppure in Spagna, almeno fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, l’analisi dell’esilio dei gesuiti avesse riscosso un grande interesse. Perlopiù le ricerche riguardavano il processo politico che aveva condotto all’espulsione e alla nascita di un blocco sociale, quello dei golillas o manteístas, avversario della Compagnia e dei suoi allievi, oppure concernevano lo sviluppo di una cultura “pre-ilustrada” antigesuita: in quest’ultimo ambito spiccano i tanti saggi e libri (l’ultimo dei quali è apparso nel 2019) che Antonio Mestre ha dedicato alla figura dell’erudito valenzano Gregorio Mayans. Dopo il minuziosa ricerca di Teófanes Egido e Isidoro Pinedo (1994) sulle cause politiche della cacciata dei gesuiti dalla monarchia di Carlo III, un’evidente accelerazione è stata impressa soprattutto dal gruppo di ricerca di Alicante coordinato da Enrique Giménez López: ad essere indagati sono stati, in particolare, i fattori logistici dell’espulsione delle undici Province dell’Assistenza spagnola, alcuni aspetti del loro esilio italiano e le trattative diplomatiche che condussero Clemente XIV a dissolvere l’ordine (Giménez López, 1997, 2002, 2008, 2009, 2017; Lorenzo García, 1997; Fernández Arrillaga, 2004; St. Clair Segurado, 2005; Martínez Tornero, 2010; García Arenas, 2014). Nel contempo questo gruppo di studiosi di Alicante ha iniziato una meritoria attività di pubblicazione di fonti, soprattutto di vari diari dei padri banditi, tra cui spicca quello di Manuel Luengo che copre tutto l’arco del destierro. Si tratta di documenti essenziali non solo per indagare l’esistenza materiale e le attività degli ex gesuiti iberici e sudamericani in Italia, ma anche per verificare la sopravvivenza dell’identità gesuita tra il 1773 e il 1814 (Luengo, 2002, 2004, 2010a, 2010b, 2013, 2015). Le ultime ricerche di Fernández Arrillaga (2012, 2016) e di alcune giovani ricercatrici e dottorande da lei dirette si stanno invece indirizzando verso la storia di genere, sottolineando il permanere, a distanza di svariati decenni dalle espulsioni e dalla soppressione, di una diffusa memoria relativa alla Compagnia presso il mondo femminile ispanico.
Naturalmente anche la storiografia sudamericana, nel corso degli ultimi venti anni, ha indagato in profondità le cause e le conseguenze dell’espulsione (come anche della restaurazione canonica) dei gesuiti, a cominciare dal settore scolastico e nell’ambito delle missioni (Salcedo Martínez 2014; Perrone 2016). Uno dei progetti di ricerca più interessanti proveniente dal mondo sudamericano è stato certamente quello promosso da Perla Chinchilla dall’Università Iberoamericana di Città del Messico. Specialista delle forme discorsive coltivate dalla Compagnia di Gesù, nel 2013 Chinchilla ha utilizzato il bicentenario della restaurazione per promuovere un progetto culturale ed editoriale intitolato 1814-2014. Construcción de una identidad. La Compañía de Jesús ante su restauración, che, nel giro di due anni, ha prodotto ben sei volumi collettivi, ognuno dei quali è stato dedicato ad un tema specifico: l’istruzione superiore, la rinascita della Compagnia in Sudamerica (in due volumi, uno dei quali di fonti), l’anti e il filo gesuitismo, le missioni prima e dopo la restaurazione, la storiografia gesuita dalle origini al primo Novecento (Romano, Bianchini e Chinchilla 2013; Fabre, Cárdenas e Borja 2014; Matabuena, Ponce Alcocer e Salcedo Martínez 2014; Monreal, Pavone e Zermeño 2014; Correa Etchegaray, Wilde e Colombo 2014; Chinchilla, Mendiola e Morales 2014). Sebbene buona parte degli studi qui raccolti concernano il mondo ispano-americano, questi volumi hanno contribuito a far luce su alcuni aspetti generali dell’identità ignaziana e sui meccanismi di ricomposizione delle strategie dell’ordine dopo la sua restaurazione del 1814.
Occorre infine ricordare che in questo stesso lasso di tempo anche alcuni storici gesuiti spagnoli e portoghesi hanno svolto delle minuziose ricerche sull’espulsione e sul ristabilimento dei rami iberici dell’ordine: spiccano, in particolare, gli studi dei già menzionati Pinedo e Trigueiros, ma anche di Antonio Ferrer Benimeli (1993-1998, 2013) e Manuel Revuelta González (2013). Di taglio diverso, invece, appaiono le ricerche di Morales, incentrate, in linea con le suggestioni metodologiche di Michel de Certeau, sull’esame della scrittura e della costruzione di una memoria e un’identità da parte dei religiosi banditi e delle generazioni otto-novecentesche di storici gesuiti.
Certamente molto ancora rimane da indagare o approfondire. Tre le varie piste di ricerca che sarebbe opportuno percorrere con maggiore coerenza figura quella relativa alla condizione esistenziale di esiliati vissuta dai religiosi ibero-americani in Italia: in che misura essa influì sulla capacità degli espulsi di ripensare la loro originaria formazione e, specularmente, di misurarsi con le tradizioni culturali italiane? A questa come ad altre domande manca ancora una risposta esaustiva, specie da parte degli storici delle emozioni, troppo spesso incapaci di collocare adeguatamente le proprie analisi nello specifico contesto vissuto dagli espulsi. Si tratta insomma di un terreno di ricerca ancora da esplorare, tenendo sempre a mente il fatto che molti di questi religiosi provenivano da contesti, come il Levante iberico, che nel XVIII secolo continuavano ad avere strette relazioni commerciali e culturali con l’Italia (e quindi non erano mondi “altri”, quanto piuttosto mondi vicini e connessi), mentre tanti espulsi erano stati missionari, per cui possedevano una forma mentis predisposta all’adattamento, solitamente a contesti ben più distanti geograficamente, culturalmente e socialmente rispetto agli Stati italiani di fine Settecento.
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