Nel 1585 il canonico Tommaso Garzoni da Bagnacavallo, nella prima edizione della sua opera dedicata a La piazza universale di tutte le professioni del mondo (stampata a Venezia presso Giovan Battista Somasco), ragionava attorno a 544 professioni, raggruppate all’interno di 155 discorsi che si aprivano con i maestri d’abaco per finire con gli zoccolari. Un’accezione molto ampia del termine professione, associato ad una precisa etimologia latina (il verbo profiteor), con forti richiami alla sfera della trasmissione del sapere, traslato al mondo delle corporazioni delle arti liberali in antitesi all’esercizio delle arti meccaniche. L’intento che aveva animato Garzoni nella composizione della sua opera, dedicata ad Alfonso II duca di Ferrara, rifletteva l’esigenza di fissare, in una visione regolata, un mondo in trasformazione in cui la tradizionale immagine tripartita delle società si stava sbriciolando in un’infinità di varianti disposte dall’autore in maniera ordinata attorno ad una piazza circolare, al centro della quale aveva posto le attività più onorevoli.
Al pari di Garzoni, sarà di nuovo l’idea di cambiamento della società a muovere, tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo, i sociologi che riconsiderarono il concetto di professione, definendone e rivedendone i contenuti a partire da quel nucleo di attività notabili individuate proprio dal canonico di Bagnacavallo. Nei lavori di Max Weber e di Émile Durkheim le professioni occupano infatti un posto rilevante: in particolare a questo tema fa riferimento Weber nelle sue analisi storico-semantiche del termine in Lutero e dell’ascesi mondana in Calvino (Weber 1905). Durkheim dibatte invece attorno a tale nucleo tematico nella Prefazione alla seconda edizione de La divisione del lavoro sociale (Durkheim 1893, 1902), muovendo dalla constatazione che, dopo un secolo di sviluppo capitalistico e di progresso continuo della divisione del lavoro, lo scatenarsi degli interessi economici è stato accompagnato da una rilassatezza della morale pubblica. È dunque di estrema importanza giungere a una regolamentazione, a una moralizzazione della vita economica, in modo che i conflitti che la travagliano possano terminare e gli individui possano cessare di vivere in un vuoto morale che indebolisce anche la loro individuale integrità. Il rimedio a questa situazione non può essere trovato nello Stato, a parere di Durkheim troppo distante dalle attività sempre più specialistiche di una divisione del lavoro complessa, ma può venire dallo sviluppo delle corporazioni professionali, in grado di fornire, attraverso la loro rigida organizzazione, un vero e proprio decentramento della vita morale. Accenti simili si trovano anche nel mondo anglosassone nell’opera di Richard H. Tawney il quale, ad una ventina di anni di distanza
dalle riflessioni di Durkheim, arriva ad auspicare che l’attività industriale possa diventare una professione, in quanto quest’ultima sarebbe costituita da un corpo di persone che portano avanti il loro lavoro secondo certe regole volte a proteggere gli interessi della comunità (Tawney, 1921). Né in Durkheim né in Tawney, tuttavia, possiamo trovare un’analisi storica, empiricamente fondata, sul ruolo delle professioni nei loro paesi. In questi studi viene posta piuttosto “enfasi sulla collocazione oggettiva e soggettiva del dato professionale entro un meccanismo di mercato”, facendo perdere di vista “il sistema delle relazioni sociali al cui interno si svolgono le vicende dei mestieri” (Macry 1981, p. 923).
Un tema, quello legato alle professioni, trascurato ancora per decenni dopo l’exploit dei sociologi e ripreso, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, dagli economisti grazie ai quali la prospettiva d’indagine, a partire dai pionieristici lavori di Carlo Maria Cipolla, è decisamente virata in direzione di un approccio prossimo alla sensibilità storiografica, affrontando tale tematica nella prospettiva sociale della longue durée (Cipolla 1973). L’attenzione di Cipolla, diretta in particolare verso i notai, per il ruolo da essi occupato nelle società comunali in qualità di massima espressione politica della Penisola italiana nell’epoca della rinascita basso medievale, costituì il punto di partenza delle riflessioni metodologiche avanzate, nel decennio successivo, da Paolo Macry (1981).
Uno dei primi lavori storiografici che raccolse il frutto di questo dialogo tra discipline, maturato attorno al tema delle professioni, fu dedicato da Gina Fasoli al ruolo dei giuristi negli ordinamenti comunali italiani, riprendendo l’approccio metodologico proposto da Cipolla (Fasoli 1984). In parallelo i coevi studi, condotti da Elena Brambilla, sulle professioni sanitarie, la medicina illuministica con i riflessi sulla salute pubblica (Brambilla 1983) e sugli avvocati (Brambilla 1989) agirono da anello di congiunzione per una storiografia successiva che sviluppò in maniera organica il tema, grazie anche ai pioneristici studi condotti, all’interno dell’alveo della storia del diritto, da Mario Ascheri sul ruolo esercitato dai giuristi nei tribunali e nelle istituzioni tra Medioevo ed età moderna sulla scia della rinascita, avvenuta a partire dal XII secolo, degli studi di diritto romano-giustinianeo e canonico. Un significato sempre più professionalizzante assunto quindi dallo iudex, attraverso i consilia, i pareri e le annotationes, che portò ad una separazione sempre più netta delle competenze giuridiche da quelle notarili (Ascheri 1989).
Facendo tesoro di queste prime esperienze di ricerca, fu a partire dagli anni Novanta del secolo scorso che ebbe inizio la fortunata stagione del filone d’indagine legato alla storia delle professioni. Per l’età medievale, constata la progressiva conquista di spazio sociale da parte della medicina razionale, affermatasi nelle università europee nel corso del XIII secolo attraverso un percorso di ‘nobilitazione’ della disciplina stessa da ars mechanica a scientia trasformatasi da mestiere a professione grazie alla presenza del mondo
accademico e delle associazioni professionali (Bullough 1966), Toby Gelfand diede alle stampe uno studio sulla professione medica inserito in un’enciclopedia di storia della medicina (Gelfand 1993). Giorgio Tamba diresse invece la propria attenzione verso i notai, partendo da un interesse sviluppatosi nei confronti delle corporazioni medievali come centri in costante dialogo con il potere. Per l’età moderna furono prodotte le ampie curatele di Betri-Pastore (1997) e Meriggi-Pastore (2000) con le quali si ampliava il punto d’osservazione estendendo lo sguardo all’intera Penisola, mentre per l’età contemporanea rappresentativi di questa vivace stagione storiografica sono i lavori di Maria Malatesta legati alla parallela fioritura di indagini attorno al tema delle borghesie (Malatesta 1995). In un momento di sviluppo economico l’argomento risultava interessante tanto da occupare un intero volume della collana di Einaudi dedicata alla Storia d’Italia, la cui cura venne affidata alla medesima Malatesta. Accanto alla storia interna delle singole corporazioni, nel volume si dava spazio alla storia esterna di una classe dirigente che è sempre stata, con alterne fortune, uno dei principali motori dello sviluppo del Paese, acquisendo coscienza di sé e del suo peso sociale.
Gli storici, a partire dagli albori del XXI secolo, hanno quindi iniziato ad indagare contesti temporali e culturali differenti, inizialmente per identificare ciascuna categoria e successivamente per studiare il ruolo degli esercenti le professioni liberali nella società (dapprima i notai fondamentali per l’epoca medievale e in seguito gli avvocati e i medici connessi allo sviluppo dello Stato moderno), proponendo un quadro interpretativo generale che rappresenta il sistema stabilizzante delle relazioni sociali. Ne è poco alla volta emerso un intreccio di pratica e teoria, di impegno professionale e di attività politica legato alla poliedrica realtà italiana (Menzinger, 2006, 2016, 2019) che continuò ad evidenziare la propria eterogeneità anche dopo l’unificazione politica del Paese.
Un punto di svolta, nel panorama storiografico italiano, è rappresentato dai seminari organizzati a partire dal 2005 presso il Collegio Ghislieri di Pavia, ideati e diretti da Egle Becchi e da Monica Ferrari, nell’accezione volutamente ampia del concetto di professione richiamato da Garzoni, che hanno portato alla pubblicazione di sette volumi per i tipi di FrancoAngeli, inseriti nella collana Formare alle professioni nella quale tuttavia non si può non notare l’assenza di un tomo dedicato ai giuristi. Alle professioni antiche (come quelle dei notai e dei medici), risalenti alle epoche più remote, si sono così affiancati studi sulle professioni più giovani identificabili grazie alla sola distinzione possibile, attraverso cioè l’iscrizione agli Ordini professionali: invenzione ottocentesca e in parte retaggio degli antichi Collegi professionali, che rappresenta uno sforzo compiuto dal potere statuale, nei riguardi delle prerogative professionali, di regolamentare istituzioni in espansione, e le attività produttive ad esse connesse, che sono arrivate, dopo la crisi dell’Antico Regime, ad essere anche in parte espressione della classe dirigente
locale e nazionale. Uno Stato presente quindi accanto alle professioni in modo diverso a seconda delle epoche: nel Medioevo e, ancor di più, in età moderna per regolare l’autogoverno delle corporazioni che limitavano l’accesso alle professioni vincolando gli iscritti all’obbligo della residenza nel territorio e favorendo la partecipazione dei professionisti alle funzioni amministrative. Notai, avvocati e persino i medici assunsero incarichi pubblici, svolgendo ruoli di mediazione con lo Stato che ancora oggi si sono mantenuti contraddistinguendo il panorama delle professioni italiane con un misto di statalismo e autonomia. Una mediazione socio-politica, quella svolta dai vari gruppi professionali, che può essere ritenuta anche mediazione intellettuale, seguendo un copione tanto antico quanto multiforme.
Dalla sociologia, l’interesse nei confronti delle professioni è passato, attraverso l’economia, alla storia delle singole discipline (giuridica e medica in particolare) fino ad approdare alla storia sociale con un arricchimento assai stimolante del quadro generale. Un interesse che tuttavia si è notevolmente affievolito nel corso di questi ultimi anni, dopo ultimi importanti lavori di Alessandro Pastore (Pastore 2009), legati alla medicina, di Alessandra Ferraresi con il suo contributo sugli ingegneri nel Piemonte moderno (Ferraresi 2004), di Grillo-Levati sui notai tra Medioevo e prima età contemporanea, oltre ai numerosi lavori in prospettiva globale promossi dal CEPROF (il Centro di ricerca sulle professioni nato nel 2010 nell’alveo dell’Università di Bologna: https://centri.unibo.it/ceprof/it). Tra i volumi editi da questo Centro si ricorda, in particolare, quello dedicato da Maria Malatesta ai Professionisti e gentiluomini (2006) oltre all’Atlante delle professioni (2009). Per l’età contemporanea si ricorda altresì l’organico lavoro sugli avvocati italiani condotto da Francesca Tacchi (2002), oltre al compendio di storia delle professioni composto sotto la direzione di Angelo Varni (2012).
Attualmente si registrano in Italia attive alcune cattedre di Sociologia delle professioni (retaggio del primitivo interesse della sociologia nei confronti del tema), oltre ad un manipolo di cattedre dedicate alla Storia delle professioni, istituite tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, a testimonianza della felice stagione vissuta da questo filone storiografico. Avendo alle spalle questi significativi risultati è lecito quindi domandarsi quale potrebbe essere per i prossimi anni il programma di lavoro della storiografia sulle professioni nella prospettiva di un rilancio di tale tema. Si potrebbe forse passare a ricerche più sistematiche volte ad indagare il variopinto panorama nei molti aspetti che contraddistinguono l’azione dei professionisti, arrivando a costruire una mappa geografica delle professioni e della loro evoluzione nel tempo, definendo in maniera sistematica gli organismi che da sempre hanno regolato l’accesso alle varie professioni, andando ad indagare in maniera più approfondita il ruolo politico occupato dai professionisti all’interno delle varie società nelle diverse epoche e le reti di relazioni da essi intessute. Tutte tematiche che contribuirebbero a completare
ulteriormente, in chiave comparativa, il già approfondito quadro delle conoscenze acquisite in particolare nel corso dell’ultimo cinquantennio.
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