I recenti casi in America e in Europa di abbattimento o deturpamento di numerosi monumenti non stupiscono certo chi in questi anni si sia occupato dei beni culturali e della gestione di un patrimonio per sua natura politico. Si tratta, infatti, di fenomeni ricorrenti e comprensibili, se solo si riflette su come il paesaggio urbano delle città europee sia popolato di monumenti e palazzi il cui significato è politico almeno quanto artistico. Il che spiega perché la storia europea (e non solo) abbia assistito continuamente all’abbattimento di diversi monumenti e all’innalzamento di altri, a ogni frattura – per lo più violenta – col passato. Non sempre, peraltro, la rimozione dei monumenti di una determinata fase politica è avvenuta quando questa si era conclusa. Se in Italia e Germania la fine delle dittature vide la contemporanea scomparsa di una parte cospicua dei monumenti che queste avevano prodotto, ciò non è accaduto, per esempio, in Spagna, dove la transizione dal Franchismo alla Monarchia, il ritorno alla democrazia del Paese e il permanere di forze politiche che a lungo hanno difeso l’eredità di Franco spiegano la permanenza di monumenti al Caudillo in varie città sino all’inizio di questo secolo, a oltre un trentennio dalla fine della dittatura: un caso credo unico in Europa. La loro rimozione fu fortemente voluta dai governi di Zapatero (2004-11), che anche a questo scopo emanò, il 31 ottobre 2007, una Ley de Memoria Histórica de España1. Un decennio, dopo, però, l’applicazione di tale legge era ancora molto parziale (ciò anche, se non soprattutto, per l’opposizione del Partito Popolare). Il governo Sanchez (dal 2018 ad oggi) ha fatto di tale applicazione una delle sue linee politiche forti. Da qui le decisioni di far traslare le spoglie del dittatore dalla Valle de los Caídos e d’eliminare dalla toponomastica le intitolazioni a politici e funzionari della Spagna franchista. Ho insistito sull’esempio spagnolo, perché mostra bene come mutazioni di questo tipo facciano parte della normale vita politica di un paese democratico, senza che ciò debba per forza esser l’esito di processi violenti o rivoluzionari. A differenza di quanto accaduto altrove in questi ultimi mesi, in Spagna s’è trattato di decisioni politiche prese dalle istituzioni dopo un regolare dibattito parlamentare.
Diversamente è accaduto in Belgio, dove il violento attacco alle statue del re Leopoldo II s’è inserito nel dibattito sui monumenti del colonialismo belga che si dipana ormai da un ventennio, come nella vicina Francia. Già nel 2008, infatti, lo scrittore Théophile de Giraud aveva imbrattato con vernice rossa la statua del sovrano per i crimini da questi compiuti in Congo. Negli anni successivi atti analoghi si sono succeduti con sempre maggior frequenza. Un contesto che ha portato le autorità di Bruxelles nel 2015, 150mo anniversario dell’ascesa al trono del sovrano, ad annullare le celebrazioni previste, per via delle forti proteste che esse avevano suscitato2. L’attacco alla statua di Leopoldo era stato preceduto, a inizio giugno, dall’invio al comune di Bruxelles d’una petizione per la rimozione dallo spazio cittadino di tutte le statue di quel sovrano. A firmarlo, un’organizzazione dal nome «réparons l’histoire», che si rifà a quella teoria della «storia riparatrice» che di recente è oggetto di sempre maggiori discussioni. Negli ultimi decenni si è assistito, infatti, alla crescita delle pratiche di «giuridificazione della storia», al fine di riparare attraverso il diritto penale le ingiustizie perpetrate dai nostri antenati3. Come ha notato il giurista Giorgio Resta, il processo civile ha finito per presentarsi come «veicolo di una giustizia inter-generazionale», alla cui base è l’idea che la storia – almeno quella contemporanea – non sia mai realmente passata4. L’idea, quindi, è che «la sentenza – cioè la storia scritta o riscritta dal giudice – costituisce il passaggio necessario per far sì che la storia sia tale, e cioè passato»5. L’idea di poter riparare la storia in sede penale, non solo attrae nel campo del diritto quanto prima era (e in fondo è ancora) pertinente al campo del politico, ma disegna un nuovo ruolo della professione dello storico. Se, infatti, come ha scritto Stefano Rodotà, «la riparazione comincia con la verità dei fatti»6, l’emissione di una sentenza non può prescindere dalla preventiva individuazione della “verità” storica. Lo storico, quindi, assumerebbe il ruolo di consulente-investigatore7. I rischi di questo approccio sono stati mostrati da Garapon8. Il giurista francese, in particolare, ha notato come, in fondo, questa declinazione della storia esprima bene «le rêve libéral de résorber les problèmes de l’histoire dans un présent éternel, celui du marché économique»9. Il riferimento al presentismo proposto da Hartog come chiave interpretativa del nostro tempo è esplicito10.
Se «réparer l’histoire», quindi, è diventato un problema giuridico – anzi, un problema di giustizia –, lo è anche la responsabilità verso quel patrimonio storico e artistico giudicato espressione della storia “da riparare”. Che cosa farne? Distruggerlo? Nasconderlo? Spiegarlo?
Nonostante la violenza di cui spesso i monumenti sono stati oggetto, quasi nessuno si spinge, in genere, a chiederne la distruzione. La proposta più diffusa è quella di trasferirli in spazi pensati appositamente. A questo proposito, può esser interessante ricordare quanto scritto nel 2006 dal filosofo camerunense Achille Mbembe, il quale ha proposto di raccogliere i monumenti coloniali esistenti in Africa in parchi appositi, una sorta di tomba simbolica del colonialismo europeo11. L’idea di creare spazi cimiteriali è stata evocata anche da storici e studiosi del vecchio continente. Nel caso del Belgio, per esempio, quando il Musée royal de l’Afrique centrale, a Tervuren, è stato chiuso nel 2013 per esser riallestito, vi è stato chi aveva proposto che la statua di Leopoldo II e altre statue di attori della politica coloniale belga vi fossero trasferite in massa, così che il parco di Tervuren potesse «faire fonction de cimetière digne de ce nom de notre passé colonial»12.
La risposta più comune è, però, quella della musealizzazione. Anche nelle ultime settimane lo han ripetuto in molti13. La musealizzazione, infatti, viene presentata da più parti come l’unica reale alternativa sia a una permanenza di tali statue negli spazi pubblici, che sarebbe politicamente inaccettabile, sia alla loro distruzione. Le opere di pregio artistico potrebbero trovare una loro collocazione nei grandi musei d’arte, mentre le altre, al più, in musei storici, come i musei di storia delle città. Dati questi presupposti, la scelta fondamentale consisterebbe nel rimuovere tali monumenti dallo spazio pubblico, in quanto motivo di scandalo.
Ora, al di là dei ragionamenti teorici, o di singole realizzazioni già poste in essere (e possibili proprio in virtù di condizioni di sostanziale unicità14) ipotesi di questo tipo mi paiono a dir poco impraticabili. I musei – grandi o piccoli che siano – hanno già enormi problemi di conservazione: i loro depositi spesso sono letteralmente straripanti di opere (molte delle quali meriterebbero di esser esposte), sicché difficilmente vi si potrebbe disporre di nuovi spazi adeguati. Si potrebbero certo realizzare i parchi-cimiteri di cui si è detto, ma questi difficilmente consentirebbero quel necessario lavoro di racconto storico, di spiegazione del contesto, che risponderebbe a una fondamentale esigenza di spiegazione del mondo che tali opere ha prodotto. Anche in essi, infatti, il passato è stato giudicato quasi sempre con i valori della contemporaneità, ribadendo così la vittoria del presente sull’asse temporale passato-futuro. Questa, d’altra parte, è ormai una consuetudine.
Vale la pena notare che, fra le statue europee divenute oggetto d’attacco, è stata anche quella di Jean-Baptiste Colbert, davanti all’Assemblée Nationale15. Il 23 giugno scorso su di essa è comparsa la scritta: «Négrophobie d’État», atto che segue una lunga serie di polemiche sul Code noir, iniziata almeno nel 2005 con lo scontro che coinvolse lo storico Olivier Pétré-Grenouilleau, uno dei maggiori studiosi europei del commercio degli schiavi in età moderna16. Tale polemica fu all’origine del manifesto dell’associazione «Liberté pour l’histoire», che annoverava fra le sue fila modernisti come Pierre Nora e Mona Ozouf, al fine di chiedere l’abolizione delle lois mémorielles. Nora, in particolare, intervistato da “Le Monde” spiegò con chiarezza che cosa rendesse tali leggi, per quanto mosse dai più nobili scopi, inaccettabili per uno storico: «La tendance à appliquer la notion de crime contre l’humanité à des événements du passé, si révoltants qu’ils puissent être, est dangereuse et inquiétante aux yeux d’un historien. Car cette notion est précisément définie. Elle comporte deux aspects qui sont, par principe, étrangers à l’historien: une condamnation morale, qui suppose une humanité identique à elle-même et relevant de mêmes critères de jugement qu’aujourd’hui: et un principe d’imprescriptibilité, qui suppose un temps identique à lui-même, alors que l’histoire est d’abord un apprentissage de la différence des temps»17. Una concezione, quella di Nora, che riprendeva il vecchio e ancor validissimo messaggio secondo il quale lo storico comprende e il giudice emette sentenze; nulla di più lontano dalla «giuridificazione della storia».
Per tornare a cosa fare del patrimonio storico-artistico europeo di cui abbiamo detto, credo che l’unica soluzione realmente possibile sia quella di lasciarlo dove si trova – tranne alcuni casi particolari – e di spiegarlo. Si tratta d’una posizione comune, peraltro, a diversi storici che si sono occupati della questione. Come ha dichiarato a “Libération” lo storico dello schiavismo Marcel Dorigny, rilevando che per «purifier» Parigi «da toute trace d’esclavage ou de massacre coloniaux, il faudrait passer un énorme éponge sur tout Paris et tout effacer», «plutôt que de supprimer des monuments ou des noms de rues, il vaudrait mieux mettre des plaques explicatives»18. Essenziale è, peraltro, il lavoro nella scuola, dove la storia dovrebbe ritrovare quell’importanza, distrutta da una serie di disgraziate riforme, realizzate senza sostanziale differenza da una destra e da una sinistra sempre meno distinguibili.
Mantenere, con nuove forme di fruizione, questo patrimonio – per quanto scomodo e doloroso – sarebbe, inoltre, in sintonia con quanto è stato deciso e compiuto negli ultimi settant’anni. Sin dal dopoguerra, infatti, l’Europa, uscita da secoli di guerre e scontri continui, superate (almeno a oggi) fasi di rivoluzioni e rivolte in cui è praticamente fisiologica la distruzione dei simboli della memoria collettiva della parte avversa, ha cercato di costruire il proprio futuro di pace anche attraverso il riconoscimento reciproco delle proprie storie nazionali, anche – e direi soprattutto – quando queste storie erano state di conflitti reciproci. Si pensi, per esempio, all’incontro del 22 febbraio 1984 tra Kohl e Mitterrand nei cimiteri di Verdun. Nella dichiarazione allora rilasciata, i due leaders politici fecero un aperto riferimento alla storia come base sia per la riconciliazione sia la costruzione di una fase politica, che intendevano tessere insieme:
«[…] Onorando insieme i morti delle guerre passate essi iscrivono in questo luogo storico il segno che entrambi i popoli hanno scelto definitivamente il cammino della pace, della ragione e della collaborazione amichevole. La Germania Federale e la Francia hanno tratto il loro insegnamento dalla storia. Ci siamo riconciliati. Ci siamo accordati. Siamo diventati amici. L’Europa è la nostra patria culturale, e noi siamo eredi di una grande tradizione europea. L’unità dell’Europa è il nostro obiettivo comune. Per esso operiamo, in uno spirito di fraternità»19.
Si badi: storia, non memoria. Perché, pur avendo entrambe un ruolo centrale e necessario, la prima permette una costruzione politica comune, la seconda è per sua natura divisiva (la ‘memoria condivisa’, di cui spesso si parla, semplicemente non esiste e non può esistere).
Su un piano parallelo, non a caso, dagli anni Ottanta s’è sempre più discusso della definizione e salvaguardia di un patrimonio culturale europeo. Già la Convenzione culturale europea del 19 dicembre 1954 aveva parlato di un «patrimoine culturel commun» da valorizzare come elemento fondante per il processo d’unità europea, e il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 ribadiva sia l’esistenza di tale patrimonio sia di un più specifico «patrimonio culturale d’importanza europea». In Europa, guerre e conflitti del passato hanno cessato di esser colte come un elemento capace di generarne o, tanto meno, giustificarne altre; sono, al contrario, acquisite come un dato storico da conoscere e capire, possibilmente indagandone le ragioni e le modalità da entrambe le parti. Il patrimonio comune europeo non può dunque che essere anche espressione d’un passato difficile, doloroso, ma con cui gli europei devono convivere, costruendoci sopra le loro identità20. L’insegnamento della storia nelle nostre scuole e nelle nostre università serve – o dovrebbe servire – a questo21.
Gli storici devono, perciò, rivendicare, ritrovare e difendere il loro ruolo nello spiegare un patrimonio che è tanto storico (e politico) quanto artistico e che, anche nelle sue espressioni più imbarazzanti e dolorose, non può e non deve esser distrutto, perché ci racconta cosa sono stati (anche) i nostri maggiori e cosa noi non dobbiamo tornare a essere.
Note bibliografiche
[1] L’ultima statua equestre del Caudillo ancora esistente Madrid fu smantellata nel 2005. L’anno successivo fu la volta di quella di Saragozza, posta di fronte all’Accademia militare, e nel 2007 toccò a quella di Santander, l’ultima che restasse in uno spazio pubblico municipale. Per un primo approccio alle leggi sulla memoria emanate nei vari paesi europei, con particolare riferimento all’Italia, si veda G. De Luna, La Repubblica del dolore: Le memorie di un’Italia divisa, Milano, 2010.
2 J.B. Yakoub e G. Abrassart, La chasse aux spectres monumentaux dans la Belgique congolaise, in Créer en postcolonie. 2010-2015. Voix et dissidences belgo-congolaises, a cura di S. Demart e G. Abrassart, Bruxelles, 2016.
3 M. Bouchard, Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa, «Questione giustizia», 2015, f. 2.
4 G. Resta, Le ferite della storia e il diritto privato riparatore, in Dialoghi con Guido Alpa. Un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, a cura di G. Conte, A. Fusaro, A. Somma e V. Zeno-Zencovich, Roma, 2018, pp. 417-457 (cit. da p. 435).
5 G. Resta, V. Zeno-Zencovich, La storia «giuridificata», in Riparare, risarcire, ricordare. Un dialogo fra storici e giuristi, a cura di G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Napoli, 2012, p. 17 (il corsivo è nel testo).
6 S. Rodotà, Il diritto alla verità, in Riparare, risarcire, ricordare… cit., pp. 504-505.
7 Cfr. P. Pezzino, Lo storico come consulente, ibid., pp. 83-113.
8 A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, Shoah, Paris, 2008 (trad. it., Milano, 2009).
9 Id., Punition, liquidation, prévention: un nouveau rapport à l’histoire?, in «Traces. Revue de sciences humaines», 2009.
10 F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expériences du temps, Parigi, 2003 (trad. it. Palermo 2007). Sulla necessità d’una consapevole reazione da parte degli storici a questa situazione mi sia permesso rinviare ad A. Merlotti, Riconquistare il tempo: la storia, per ripartire, «Il patrimonio culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage», IV (2013), n. 7, pp. 105-120.
11 A. Mbembe, Que faire des statues et monuments coloniaux?, in “Le Messager”, 16 marzo 2006: «Je propose que dans chaque pays africain, l’on procède immédiatement à une collecte aussi minutieuse que possible des statues et monuments coloniaux. Qu’on les rassemble tous dans un parc unique, qui servira en même temps de musée pour les générations à venir. Ce parc-musée panafricain servira de sépulture symbolique au colonialisme sur ce continent. Une fois cet ensevelissement effectué, qu’il ne nous soit plus jamais permis d’utiliser la colonisation comme prétexte de nos malheurs dans le présent. Dans la foulée, que l’on se promette de ne plus jamais ériger de statues à qui que ce soit. Et qu’au contraire, fleurissent partout bibliothèques, théâtres, ateliers culturels, tout ce qui nourrira, dès à présent, la créativité culturelle de demain». Lo si può leggere in: http://africultures.com/que-faire-des-statues-et-monuments-coloniaux-4354/. Al tema dei monumenti Mbembe ha dedicato poi un capitolo della sua Critique de la raison nègre (Parigi, 2013).
12 J.B. Yakoub e G. Abrassart, La chasse aux spectres monumentaux dans la Belgique congolaise cit., p. 138.
13 Cfr. T. Montanari, Le statue controverse finiscano in un museo, “Il fatto quotidiano”, 16 giugno 2020.
14 È il caso, per esempio, della bella esperienza realizzata nel 2019 da un collettivo di studiose nel palazzo romano un tempo sede della Gioventù Italiana del littorio Cfr. I. Scego, Cosa fare con le tracce scomode del nostro passato (9 giugno 2020), che si può leggere in: https://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2020/06/09/tracce-passato-colonialismo-razzismo-fascismo.
15 Cfr. in merito J.-C. Petitfils, Colbert et le «Code noir»: la vérité historique, “Le Figaro” 29 giugno 2020.
16 P. Weil, Politique de la mémoire : l’interdit et la communication, «Esprit», 2007, f. 2, pp. 124-132 (in part. p. 125).
17 P. Nora, La France malade de sa mémoire, “Le Monde 2”, n. 105, 2006, février.
18 “Libération”, 22 agosto 2017.
19 Traggo la traduzione da V. Vannuccini, Verdun, la Germania perdonata, “la Repubblica”, 23 settembre 1984. È questa la posizione sostenuta, fra gli altri, anche da Ruth Ben Ghiat, la storica americana che con un articolo apparso sul “New Yorker” il 5 ottobre 2017 in merito all’eredità artistica del Fascismo ha generato una delle prime discussioni nel nostro Paese in merito alla questione dei monumenti.
20 M. Fiorillo, Verso il patrimonio culturale dell’Europa unita, «Rivista telematica dell’Associazione italiana dei Costituzionalisti», 2011, n. 4 (ottobre). Si vedano inoltre i saggi riuniti in «Culture & Musées», 2019, La fabrique des patrimoines européens au XXIe siècle, a cura di I. Brianso et F. Rigat.
21 Un lungo discorso porterebbe a considerare, poi, la volontà manifestata dai governi di pressoché tutta Europa, nell’ultimo trentennio, di riappropriarsi di simboli del passato monarchico, antecedente la Grande guerra, per collegarsi a una storia che si sentiva fondamentale da un punto di vista identitario. Su questo tema cfr. A. Merlotti, Palais royaux et résidences royales. Un espace pour l’histoire: des nations à l’Europe, in «Culture & Musées», 2019, cit., pp. 190-194; Id., Un patrimonio fra storia e politica: simboli e residenze delle monarchie nell’Europa contemporanea, in Monarchie d’Europa, a cura di F. De Leo e L. Goretti, Roma, 2020.