E’ abbastanza facile scrivere qualcosa “contro”, soprattutto in tema di università, soprattutto per chi ci lavora dentro e conosce i tanti difetti e le tante mancanze del nostro sistema. Questo, invece, è un intervento a favore, “per”. E “per” una cosa contro la quale sarebbe anche abbastanza facile, e popolare, pronunciarsi, vale a dire l’esercizio di valutazione nazionale della qualità della ricerca, l’elefantiaco processo che si mette in moto ogni cinque-sei anni e serve in primo luogo a distribuire la quota premiale (giunta ormai al 26% o giù di lì) del Fondo di finanziamento ordinario dell’università italiana.
Sono per la VQR, prima di tutto, perché le alternative sarebbero peggio. Ricordo bene l’università in cui il finanziamento avveniva a pioggia, semplicemente sulla base della numerosità degli studenti, dei docenti o delle sedi, una realizzazione originale del principio evangelico “chiedete e vi sarà dato”. Vinceva chi contava di più politicamente, chi poteva saltare la coda la mattina fuori della stanza del ministro o del direttore generale del ministero, chi poteva fare la voce più grossa: queste cose esistono ancora, lo sappiamo bene, ma in misura ridotta. I criteri, magari opinabili, con cui gli atenei vengono finanziati sono più trasparenti, possono generare comportamenti migliorativi, e anche per questo sarebbe meglio che non cambiassero spesso.
Sono per la VQR perché assegna un ruolo centrale alla ricerca, e questo mi sembra un segnale positivo per evitare che ricerca e didattica siano separate, e per far sì che l’università mantenga il prestigio che la distingue dalle altre agenzie formative. Conosco l’obiezione: e la didattica? Perché la didattica non viene valutata? In fin dei conti il compito principale dell’università è distribuire conoscenza… Il problema è che se è già complicato valutare un “prodotto della ricerca”, cioè nel nostro mondo umanistico sostanzialmente una pubblicazione, è quasi impossibile valutare l’efficacia e la qualità della didattica. Certo c’è una quantità di enti e occasioni in cui la didattica viene valutata – dalle opinioni degli studenti, nelle procedure di riesame dei CdS, da Almalaurea, nelle commissioni paritetiche, nelle schede di monitoraggio annuale, dai nuclei di valutazione, dalle CEV ecc. – ma da tutte queste istituzioni non valutano realmente l’efficacia della didattica, bensì la sua percezione, la sua organizzazione, l’occupabilità ecc.
Sono per la VQR perché responsabilizza il corpo docente, coinvolgendolo in un processo generale di revisione tra pari e impegnando ognuno a produrre in un certo numero di anni un numero – peraltro contenuto – di buone pubblicazioni che saranno soggette a valutazione da parte della propria categoria. Perché il sistema funzioni bisogna naturalmente che, poco per volta, cresca una mentalità predisposta alla valutazione e alla valutazione onesta tra pari; che si affievoliscano le logiche di fazione; che il merito, quello scientifico derivante dalla stima dei propri colleghi, sia premiato. Lo so che queste possono sembrare parole vuote; sta a noi, e soprattutto alle generazioni che verranno, riempirle di contenuti etici e culturali.
Naturalmente sono convinto anch’io che la VQR potrebbe essere migliorata, e in qualche misura questo è sempre, o quasi sempre, avvenuto nei suoi quattro esercizi (VTR 2001-2004 compresa). In quest’ultima VQR, ad esempio, è molto positivo il ruolo sempre più chiaro assegnato ai dipartimenti, che sono gli unici, assieme alle università, di fatto ad essere valutati: questo aumenta la responsabilizzazione dei singoli nei confronti dei colleghi e delle colleghe, perché un ricercatore scadente penalizza tutti i componenti del dipartimento, vicini di stanza compresi. E’ invece negativo il ridimensionamento del numero dei valutatori a disposizione, che dovrebbe invece essere aumentato a coinvolgere quasi l’intera comunità di ogni singolo ambito scientifico. Risparmiare qualche milione di euro in referaggi, quando la valutazione serve ad assegnare in cinque anni diversi miliardi, è miope.
Sono per la VQR, infine, perché nelle nostre aree umanistiche non bibliometriche valutare una pubblicazione significa ancora leggerla. Non calcolare il numero delle citazioni, comprese quelle concordate con il collega di stanza, non vedere se è uscita in una rivista anglosassone o in un bollettino prealpino (come se l’impatto della rivista non possa anch’esso essere frutto di strategie citazionali), non giudicare sulla base che tratti dell’argomento più in voga o riprenda invece un’idea del secolo scorso. Leggerla, farla leggere a due studiosi che ne capiscono, e basta. Almeno spero sia ancora così.