Capita spesso di leggere sui giornali notizie di carichi di contrabbando intercettati nei porti italiani: pare che solo l’1,5% dei container in ingresso ogni anno venga controllato; ad essere nel mirino delle autorità di controllo sono specialmente armi, amianto, droga; e negli ultimi anni – pur non rappresentando più una delle principali voci di bilancio della malavita organizzata – anche il traffico clandestino di sigarette sembra tornato in auge. Questi fatti di cronaca, che spesso passano in secondo piano nei nostri fugaci momenti di aggiornamento su quotidiani e altre fonti di informazione, ci riportano a un passato di vita marittima e portuale molto simile (molti illeciti, pochi controlli) ma anche in parte diverso, per volumi movimentati, per tipologia di merci e di imbarcazioni, per interessi e soggetti coinvolti (sia dalla parte dei trasgressori, sia dalla parte dei controllori). In ogni caso, di fronte a questi fenomeni, quel che conta è chiederci cosa ci possono spiegare in relazione alla società, alle convinzioni culturali, al senso comune.
Risalendo ai secoli dell’età moderna, ci troviamo di fronte a un problema difficile da mettere a fuoco ma ben presente. Esisteva un “Mediterraneo irregolare”, aveva provato a sintetizzare, una ventina di anni fa, un maestro che tanto ha dato alla nostra disciplina (Preto 2002); anche se per la verità, non sono stati molti quelli che, in Italia, hanno concentrato i loro interessi sulle attività fraudolente condotte in maniera sistematica negli spazi marittimi (le pagine più stimolanti, su questi temi, sono state dedicate piuttosto ai contesti terrestri: ancora Preto 1983; Bianco 1995 e 2002). Solo di recente la categoria dell’illecito, codificata in maniera chiara come avevano già fatto altre storiografie (per quella francese: Marzagalli 1999; Figeac-Monthus, Lastécouères 2012), si è affacciata negli studi sul Mediterraneo condotti da gruppi di ricerca italiani, non a caso con una forte vocazione internazionale (in particolare: Salvemini, Zaugg 2013). Inoltre un problema come il contrabbando non poteva non rientrare nella sfera della storia degli apparati repressivi; perciò anche la fortunata collana del Cepoc (Centro di studi “Le polizie e il controllo del territorio”) vi ha dedicato alcuni lavori monografici (Antonielli, Levati 2016; Calcagno 2017). Non c’è bisogno di dire che rivolgersi all’osservatorio marittimo, e specie a quello dei porti maggiori, per lo studio degli illeciti, assume un rilievo cogente nella misura in cui, ieri ancor più di oggi, per mare si spostava la netta maggioranza delle merci in circolazione. Figure di contrabbandieri a cavallo come Louis Mandrin hanno un innegabile fascino (Kwass 2016), ma è la folla degli operatori marittimi che in antico regime gestiva la fetta maggiore del commercio (legale e illegale).
Continuando a ragionare in termini di raffronto tra il nostro presente e i secoli dell’età moderna, non dobbiamo limitarci a considerare la dimensione delle attività irregolari solo per la loro incidenza quantitativa sul totale degli scambi e sulle casse delle istituzioni. In effetti, misurare questi fenomeni è impossibile, per l’ovvia ragione che le frodi restano sommerse fino a quando non vengono acclarate dagli agenti di controlli e dai tribunali. Alcune tracce (calcoli degli uffici doganali, sorprendenti confronti tra registri privati di contabilità mercantile e denunce regolari delle merci) fanno supporre che anche nel passato una cospicua porzione dei traffici eludesse le dogane; ma è inutile spingersi oltre su questo versante. Studiare le attività fraudolente presenta semmai il grande vantaggio di aprire una porta sulla quotidianità delle persone che in età moderna vivevano sul mare, e del mare, cercando di alternare sapientemente attività regolari e attività irregolari. Qui sta la maggiore differenza con l’attualità: generalmente gli archivi non ci restituiscono profili di “professionisti” della frode, inseriti in gruppi organizzati apparentemente separati dal corpo sociale; tutti o quasi provavano, ognuno secondo le proprie possibilità, a ricorrere almeno in parte a modalità illegali. I processi ci raccontano di patroni di barca e di capitani che frequentavano abitualmente porti e spazi costieri; a frodare sono insomma gli habituée dello shipping. Anche l’organizzazione e l’attuazione dei commerci illeciti toccavano una discreta porzione della società: per sbarcare o imbarcare merci irregolari o che non si erano incanalate attraverso i varchi doganali (contrabbando e frode doganale sono due cose diverse!) si ricorreva a schiavi, marinai, donne, stretti familiari; si usavano le tasche dei marginali, gli abiti dei religiosi, le carrozze dei nobili, e altro ancora. Noi leggiamo dei “porti colabrodo italiani” (Il Secolo XIX, 14 agosto 2016) e delle bandiere panamensi e ci sembra tutto molto distante dalla nostra vita; le popolazioni marittime di antico regime erano al contrario assuefatte alle pratiche illecite. Certo, è molto probabile che i trasgressori rimasti intrappolati nei documenti (i “pesci piccoli”, diremmo noi oggi) avessero alle spalle grandi big della finanza e della mercatura che ricorrevano sapientemente ai commerci clandestini (ma che solo raramente vengono a galla dai procedimenti giudiziari); a marcare la differenza è però quell’esercito di esecutori materiali degli illeciti, che in età moderna aveva una composizione sociale molto più trasversale.
Cos’è successo? Si sono attivati processi complessi, di cui non si può dar conto sinteticamente in questa sede. Senz’altro, lo Stato e le sue dotazioni istituzionali, amministrative e di polizia, hanno compiuto un percorso di trasformazione radicale, acquisendo il primato dell’arena politica e conseguendo un irradiamento nella società che in precedenza poteva essere tutt’al più – secondo la formulazione degli storici – un “disciplinamento”. Ma senza scomodare grandi categorie e grandi dibattiti, forse lo sforzo diacronico imposto da questo piccolo contributo si può risolvere più facilmente notando che è profondamente cambiata la posizione del corpo sociale di fronte ai traffici clandestini. Racconto un aneddoto: la mattina del 3 settembre 1733 il marinaio Lorenzo Zerollo si trovava con il gozzo deputato ai controlli doganali nella Riviera ligure di Levante “in vicinanza della spiaggia di Framura” (oggi suggestivo borgo costiero a pochi km dalle Cinque Terre), e mentre era di vedetta si imbatté in un piccolo legno che faceva la spola tra una grossa barca al largo e la riva, trasportando grano e formaggio; avvicinatosi per domandare all’equipaggio del natante le certificazioni doganali, iniziò ad intravedere “gente che era accorsa alla spiaggia” e “tanto da marinari suddetti che erano sul schiffo quanto dalle persone che erano in la spiaggia ammutinate e concorse a tal effetto, cioè da marinari con li remi in mano e per l’aria e dalla gente che era in terra con li sassi alla mano”, gli fu vivamente consigliato di soprassedere. La normalità, nei secoli dell’età moderna, è quella di una totale acquiescenza, se non di una convinta accondiscendenza, della gente comune nei confronti dei commerci irregolari: chi praticava le frodi era ben visto e “coperto” perché provvedeva a mettere sul mercato prodotti a un prezzo più conveniente, procurando vantaggi a una popolazione in gran parte dotata di scarso potere d’acquisto e sovente esposta a una pericolosa incertezza alimentare.
Le tariffe doganali erano sentite come vessatorie e alzavano il costo dei beni di consumo; per questo i traffici fraudolenti godevano di legittimazione morale, ed erano pienamente accettati (e favoriti) dalle persone. Secondo Cesare Beccaria, il contrabbando “non produce[va] infamia nella pubblica opinione”; una considerazione in linea con quello slittamento del biasimo pubblico e del rigore penale dai reati contro il patrimonio ai reati contro la persona, che avrebbe plasmato la moderna cultura giuridica. Non a caso, in Sorvegliare e punire Michel Foucault osservava che la borghesia ottocentesca aveva costruito buona parte dei suoi successi economici sull’illegalità. E con una certa ragione, nel 1898 l’economista tedesco Gustav Schmoller affermava che la vera storia del commercio del XVIII secolo era la storia del contrabbando.
Oggi, nella nostra società occidentale, il tenore di vita medio delle persone è superiore a quello dei secoli dell’età moderna; rivoluzionari cambiamenti nel modo di produrre e di trasportare le cose ci hanno liberato dalla paura della fame: quei vecchi commerci illeciti non servono più. I traffici di sigarette di contrabbando hanno perpetuato fino ad oggi certe pratiche che affondavano le radici nel passato (nel XVIII secolo la circolazione dei tabacchi al di fuori delle privative era uno dei principali problemi degli Stati, ci ricorda Stefano Levati in uno suo bel libro del 2017). Tuttavia, la faccenda non pervade più le quotidianità della maggioranza della gente: la distinzione tra legalità e illegalità commerciale è molto più netta, fondata su una moralità che è parte delle nostre coscienze; la nostra acquiescenza e la nostra sordida accondiscendenza vanno semmai ad altre pratiche che riguardano il rapporto tra società, i professionisti e l’erario. Poi c’è il discorso della contraffazione, che però sarebbe anch’essa da trattare a parte. Di fatto, i maggiori traffici clandestini (intendendo quelli che generano più profitti per chi li gestisce) muovono merci che interessano in misura parziale i consumatori. Ma sta di fatto che il Mediterraneo moderno, brulicante di uomini che dedicavano la loro esistenza alle attività marittime, era davvero uno spazio ad alta concentrazione di illecito: per questo osservarne il “lato oscuro” ci consente di conoscere meglio il mondo del lavoro, di capire la griglia delle relazioni e i codici di comportamento degli operatori coinvolti, di avvicinarci alle strutture mentali e al senso comune del tempo. Tutte dimensioni per le quali non disponiamo delle fonti e degli indicatori dei nostri giorni, e che attraverso il filtro dell’illegalità acquisiscono inaspettatamente tinte nitide e forti.
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