I dibattiti sul ruolo e la funzione svolta dai traduttori che hanno recentemente interessato l’opinione pubblica europea (e non solo) hanno richiamato l’attenzione sull’importanza storico-culturale delle attività di traduzione.
Nel corso degli ultimi tre decenni, le traduzioni sono diventate un tema di interesse per studiosi provenienti da ambiti disciplinari diversi, non più riconducibili esclusivamente al campo degli studi letterari, storico-linguistici o di letteratura comparata. Accogliendo e discutendo alcune delle proposte teoriche e metodologiche formulate, a partire dalla fine degli anni Settanta, dai Translation Studies e dalla Translation History (si vedano almeno Bassnett 1980; Bassnett 1998; Pym 1998; O’Sullivan 2012) – prima fra tutte l’idea che le traduzioni debbano essere considerate e, di conseguenza, esaminate come ‘processi culturali’, vale a dire come il risultato di una complessa e dinamica operazione di mediazione culturale – anche nell’ambito della ricerca storica è stata avviata una riflessione sull’utilità di uno studio delle pratiche traduttive.
Nel momento in cui, come affermato da Peter Burke, i Translation Studies «begin to take history seriously» (Burke, Po-Chia Hsia 2007, p. 2, ma cfr. anche Rundle 2011 e 2012), gli storici hanno gradualmente cominciato a prendere sul serio le traduzioni, riconoscendone la natura di «complesso laboratorio concettuale» e, soprattutto, la valenza di documentazione di «singolare interesse» per l’analisi di questioni storiografiche, dai meccanismi di trasmissione e appropriazione di idee e saperi, a quelli di elaborazione e definizione di nuovi linguaggi storiografici, scientifici, filosofici, economici o politici (Imbruglia, Minuti, Simonutti 2007, p. 2; e più recentemente, ad esempio, Reinert 2011; Carpi, Guidi 2014; Bret, Peiffer 2020). È stato proprio Burke a fare una prima, organica proposta in tal senso, elaborando quello che – a buon diritto – può essere ritenuto un nuovo campo di indagine, quello della Cultural History of Translation, che si basa sull’assunto che le traduzioni debbano essere esaminate come esiti di un’operazione di negoziazione «between cultures well as between languages» (Burke, Po-Chia Hsia 2007, p. 3) e chiama direttamente in causa l’ampio e, per certi versi, problematico concetto di cultural translation. Una categoria concettuale che, come noto, era stata impiegata in prima istanza dagli antropologi per descrivere le strategie e le tattiche che venivano adottate negli scambi tra culture differenti (cultural exchanges) e, successivamente, era stata recuperata ed utilizzata anche nell’ambito degli studi linguistici, letterari e, non di meno, storico-culturali (Burke 2007, pp. 8-10; Burke 2005 e 2009b).
L’interesse crescente per la possibilità di usare le traduzioni come «lens through which we research our historical object» (Rundle 2011, p. 3) ha portato gli storici ad avvertire la necessità di un dialogo sistematico con altre discipline, per arrivare a definire un valido metodo di indagine, che possa permettere di decodificare ed esplorare l’attività di traduzione in tutti i suoi passaggi fondamentali. Grazie, ad esempio, al confronto con le sollecitazioni proposte da studiosi come Lawrence Venuti – autore del celebre studio The Translator’s Invisibility (Venuti 1995) – Anthony Pym o Michel Espagne (Pym 1998 e 2009; Espagne 2010), in ambito storiografico si è iniziato ad indirizzare un’attenzione puntuale non solo ai ‘rifacimenti’ del testo e del paratesto dell’originale, ma anche ai “vettori sociali”, vale a dire i ‘soggetti che traducono’ e svolgono, attraverso con il loro lavoro, una funzione di «artisans de l’histoire et des identitès culturelles» (Delisle, Woodsworth 1995, p. 56; Bastin 2004; Bastin 2005). Nel primo caso, l’analisi è rivolta agli interventi di adattamento linguistico e stilistico dell’edizione di partenza e alle modifiche del formato, della struttura o delle varie componenti peritestuali: elementi come prefazioni, lettere dedicatorie, note a piè di pagina, indici, appendici o interi tomi aggiuntivi possono essere strumenti di azione e manipolazione del significato, ma anche canali che consentono ad editori e traduttori di «far udire la propria voce» e di ritagliarsi uno spazio nel quale discutere le argomentazioni dell’autore, proporre interpretazioni alternative, rilevare e sanzionare eventuali errori o specificare meglio concetti o termini non pienamente comprensibili nel nuovo contesto (Crisafulli 2004, p. 462; Gamsa 2011; Gil-Bajardí, Orero, Rovira-Esteva 2012). Nel secondo, invece, oggetto di approfondimento sono tutti quegli attori che agiscono, a vari livelli, nel processo traduttivo (Wolf, Fukari 2007; Merkle 2008; Bandia, Milton 2009). Ognuna di queste figure – dai promotori o finanziatori delle imprese editoriali, ai traduttori e agli editori, fino ad arrivare ai recensori che si occupano di commentare e discutere tali progetti editoriali sulle pagine dei periodici – ha finalità ben precise da conseguire con il proprio lavoro, che può essere condizionato da una serie di fattori che possono comprendere le loro personali «motivazioni» o la loro «storia», ma anche le loro «dipendenze economiche», le loro «idee su ciò che deve essere comunicato ad un nuovo contesto per colmare una lacuna intellettuale» e – aggiungerei io – i loro rapporti sociali e professionali o l’adesione a progettualità più ampie e condivise, come quelle promosse da governi, accademie o società scientifiche e letterarie (Espagne 2010, p. 21).
Gli storici hanno saputo trarre indicazioni altrettanto valide per lo sviluppo di una riflessione sulle traduzioni anche da discipline o ambiti di indagine che, pur non occupandosi in maniera esclusiva solo di traduzioni, pongono, comunque, al centro del loro interesse i questioni relative alla circolazione e ricezione di idee, testi, oggetti. Mi riferisco, in modo particolare, agli studi di Michel Espagne e Michael Werner sul concetto di transfert culturale (Espagne, Werner 1988; Espagne 1997 e 1999), che hanno sollecitato i ricercatori a soffermarsi sulla histoire des traductions come prospettiva privilegiata a partire dalla quale interrogarsi, in modo nuovo e più completo, sulle fasi di passaggio degli objects culturels da un contesto ad un altro (Espagne 1999; Lombez, Kulessa 2007). Mi pare interessante evidenziare come, nell’ultimo decennio, siano stati realizzati diversi progetti di ricerca e pubblicazioni dedicati tanto allo studio dei transferts culturali, quanto alle implicazioni che questo ha nell’analisi delle pratiche di traduzione, soprattutto di quelle caratterizzanti il XVIII secolo (Burrows, Dziembowski, Thomson 2010; Stockhorst 2010; Cantarutti, Ferrari 2014).
Non stupisce il fatto che i settecentisti e, in modo ancora più specifico, gli specialisti di Enlightenment Studies si siano rivelati un terreno piuttosto fertile per lo sviluppo di una riflessione sistematica sulla ‘questione traduzioni’. Come è stato ampiamente dimostrato, durante tutto il corso del secolo dei Lumi, si registra un aumento della produzione che va di pari passo con lo sviluppo di dibattiti sempre più sistematici sul tema dell’importanza delle traduzioni quali strumenti per la trasmissione di saperi di ‘pubblica utilità’ ad un pubblico in graduale crescita e diversificazione, tanto sul piano culturale che su quello sociale.(Oz-Salzberger 2014). In vari contesti europei, si procede nella direzione di riflessione traduttologica fondata sulla convinzione che «tradire» il testo di partenza fosse «un obbligo verso la società» (Lombardi 1998, p. 132): tale principio era ritenuto valido non solo per gli adattamenti di opere letterarie, ma anche per quelli di contributi di argomento filosofico, economico-politico o scientifico e tecnico. In una realtà nella quale il latino stava ormai perdendo del tutto la sua funzione di lingua universale per le élites e ampie fasce di lettori erano in grado di leggere esclusivamente nella propria lingua, l’interesse per le moderne teorie e tecniche in campo agronomico, medico o botanico, per le gazzette politiche americane o londinesi, per la produzione dei romanzi inglesi, per le raccolte di poesie tedesche o, ancora, per i modelli di organizzazione economica o istituzionale sperimentati in altri stati, poteva essere soddisfatto anche grazie alla messa in cantiere di specifici progetti di traduzione (Bret 2010; Castagnino 2020).
Storici come László Kontler, Fania Oz-Salzberger, Ann Thomson o Jesús Astigarraga hanno sottolineato il contributo fondamentale dato dalle traduzioni alla ricezione e appropriazione di quanto proposto e discusso nei vari contesti della République des Lettres europea (Kontler 2006; Oz-Salzberger 2006), dimostrandosi concordi nel ritenere il loro esame un passaggio obbligato per lo sviluppo di nuove chiavi di lettura per interpretare i caratteri peculiari della storia intellettuale e culturale dell’Europa dei Lumi (Trampus 2002 e 2011; Leech 2020). Da un punto di vista più generale, tale consapevolezza teorica ha portato i ricercatori a riflettere sulla validità di alcune delle ipotesi interpretative e metodologiche degli Enlightenment Studies, e a prendere in considerazione proposte che individuano nell’Illuminismo europeo «an inter-cultural rather than a flatly cosmopolitan movement» (Oz-Salzberger 1995, p. 2). Uno degli esiti immediatamente percepibili di questo cambio di prospettiva, è la critica al concetto di ‘fortuna’, utilizzato per descrivere la presenza di un’opera in un elevato numero di versioni tradotte, senza provare fino in fondo a interrogarsi sulle ragioni del suo successo e sulle modalità di trasformazione dell’originale. Un altro dei risultati più evidenti – altrettanto importante e strettamente correlato al precedente – è il riconoscimento del ruolo concreto giocato dal contesto di arrivo e la conseguente messa in discussione del concetto di ‘influsso’ e delle tradizionali categorie di ‘centro’ e ‘periferia’. Se si considerano le pratiche di traduzione in tutta la loro complessità, anche alle aree considerate marginali rispetto ai grandi centri di irradiazione del pensiero illuminista può venire riconosciuta una partecipazione attiva, che si concretizza nelle operazioni di selezione e rielaborazione dei materiali concettuali, per adattarli ai caratteri peculiari dell’area ricevente (Astigarraga 2010; Kontler 2014).
Ci troviamo di fronte ad un campo di indagine particolarmente vivace, che recentemente ha saputo trarre notevoli vantaggi anche dal confronto con le Digital Humanities: basti pensare ad alcuni progetti finalizzati alla mappatura di specifici settori della produzione di traduzioni (si veda, ad esempio, il progetto Radical Translations. The Transfer of Revolutionary Culture between Britain, France and Italy, 1789-1815, coordinato da Sanja Perovic, https://radicaltranslations.org) o alla creazione di database sulle attività svolte dai traduttori nel lungo Settecento (Eighteenth Century Translators Dictionary, coordinato da Ann Thomson, https://eutec-project.it/)
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