Riassumo qui, sperando che i soci della SISEM vogliano prenderle in considerazione, alcune riflessioni su Giuseppe Giarrizzo. Il loro senso non è nel rendergli omaggio (pratica legittima ma scontata) bensì nel saggiarne l’attualità/utilità.
Una delle cifre caratteristiche e originali dei suoi studi è stata la ricerca costante dei nessi dei protagonisti culturali con la loro epoca colti attraverso la loro tensione politica: così è per il suo primo grande lavoro, quello su Gibbon del 1954. Esso è di notevole interesse ai nostri fini perché rivela l’originaria matrice crociana[1] (ci torneremo) della sua visione “della contemporaneità dello storico”, laddove individua come bersaglio polemico “i numerosi e interessati difensori dell’obiettivismo storiografico” i quali potrebbero trovare la visione del Gibbon “mitologica e condizionata … alla politica del suo mondo”, “quasicché il conoscere storico non muovesse sempre da una urgenza morale e non fosse perciò da questa sempre condizionato”[2] .
Analogo l’approccio a Hume il cui “profilo non convenzionale” era nato dall’ “attenta lettura dei suoi scritti politici” che “valse ad illuminare i rapporti di Hume con la politica contemporanea” e gli “fece vedere come la History nascesse dal proposito di realizzare una piattaforma ideologica su cui fosse possibile una coaliton of parties …”[3]. Così sarà molto tempo dopo (1995) il saggio su Mazzarino di cui scandirà il percorso storiografico intrecciandolo alla congiuntura politico-culturale dei vari momenti che questi si trovò a vivere dal 1936 in poi[4].
La sua lettura dello ‘storicismo degli storici’ (espressione cara a Giarrizzo[5] che la ricava da Mazzarino) del secondo Novecento, si fonda sullo stretto legame tra storia e politica che ne costruisce la contemporaneità anche se non garantisce di per sé ‘imparzialità’ cui crocianamente lo studioso rinuncia per la ‘verità’. Quasi provocatoriamente Giarrizzo della sua “pedagogia civile” offrirà in uno scritto autobiografico una versione ‘estrema’ rivendicando l’ “appartenenza” dei suoi scritti sugli illuministi siciliani e su Vico tra il ’60 e l’80 agli “anni del Centro-sinistra, anni in cui per tanta parte della “cultura di sinistra” (ché, socialista da sempre in quella cultura mi riconoscevo) il modello gramscista di intellettuale si era esaurito e gli intellettuali erano chiamati a dismettere il ruolo di coscienza critica della società per procedere alla riforma e al governo delle istituzioni”[6].
Nelle successive generazioni di storici (la mia inclusa), tra storia/scienza e storia/letteratura, si è credo cercato quasi di ‘occultare’ il rapporto con la contemporaneità, o meglio con le vicende politiche del proprio tempo. E il legame con il presente si è fatto spesso opaco, come si tentasse di mantenere (o acquisire) – rispetto all’aggressività di media e social – una veste di obiettività o affidabilità che nessuno sembra però richiedere se ormai la storia parrebbero raccontarla tutti e ciascuno a suo modo. Certo il legame con la ‘politica’, tipico della generazione di storici del secondo dopoguerra, suscitava non poca diffidenza anche perché allora alcuni esponenti dell’emergente e aggressiva storiografia marxista ne facevano un filtro che rischiava di distorcere pesantemente la lettura delle vicende storiche. Da un punto di vista metodologico, venuta meno la ‘tutela’ dello storicismo crociano (il suo storicismo assoluto)[7] si apriva ovviamente un fronte inedito. Come, da storici, prendere in carico le proprie scelte ideologiche? Si tratta di una questione (il rapporto con l’ideologia) che si è preferito accantonare, quasi a scongiurare cedimenti nella questione ancor più delicata del rapporto con la realtà e della ‘verità’ del racconto dello storico di fronte all’attacco prima del linguistic turn poi del costruttivismo neoculturalista che hanno messo in discussione il rapporto tradizionalmente costitutivo della ricerca storica con la ‘verità’[8]. Reagendo con fine ironia al linguistic turn negli anni ‘80 Momigliano evocava l’ideologia dello storico tra le possibili motivazioni alla base delle sue scelte tematiche e ne auspicava però la rapida messa a distanza[9].
Collocatosi dalla parte della ‘verità’ Giarrizzo non riteneva l’ideologia estranea alla sua visione civile del mestiere. Semmai si trattava passo passo di verificare con rigore filologico le eventuali distorsioni che questa poteva produrre sull’oggetto di ricerca. Forti al riguardo le sue polemiche coll’ideologismo di alcuni esponenti della storiografia marxista dell’immediato secondo dopoguerra che gli apparivano piegare la ricerca alle esigenze politiche del momento. La filologia, sorretta dalla metodologia appresa da antichista alla scuola di Santo Mazzarino, diventava lo strumento principe di tutela e garanzia della validità del percorso e dei risultati della sua ricerca[10].
A cogliere in modo esplicito e chiaro lo spessore politico-culturale dell’approccio di Giarrizzo conviene seguirlo in uno dei suoi momenti ‘polemici’ più vigorosi, originato nel 1970 dalla pubblicazione del volume di Denis Mac Smith sulla Sicilia[11]. La polemica coinvolse Leonardo Sciascia all’epoca sponsor del Mac Smith. A Sciascia (tra i due c’era e rimase un rapporto di stima al di là delle polemiche) Giarrizzo ‘spiegò’ in una lettera le sue ragioni.
Conviene lasciargli la parola:
«La domanda cui io e te, da posizioni diverse, dobbiamo rispondere è: a che giova la proposta interpretativa che M[ac].S[mith] offre della storia siciliana? (sottolineatura nel testo) Ha oggi valore di impulso etico-politico la stanca ripetizione di luoghi comuni sul “grande” periodo arabo, sulla età normanna, sul Vespro, sulla ‘dominazione’ spagnola e sulla ‘natura’ siciliana? A quali classi, ceti o gruppi dell’isola essa può ancora fare appello, e per quali fini? La mia opinione è che essa ribadirà nella piccola borghesia siciliana spiriti e temi di un sicilianismo angusto e logoro, che non ha più vitalità culturale e politica, e non opera nel senso in cui un’opera storiografica attuale sempre deve, nel senso cioè di ricostruire il passato sulla misura dei problemi e delle tensioni del presente (e ciò vale tanto per la storiografia nostalgica quanto per la storiografia profetica). Sta qui la sostanza della mia polemica …»[12]. Si tratta, è evidente, di un giudizio politico e non semplicemente ‘accademico’: «a me – scrive nella stessa lettera – la Storia di M. S. non piace perché è un libro criticamente e storiograficamente vecchio, ma soprattutto perché è un libro inutile o peggio». Fragilità scientifica e ‘inutilità’ (se non peggio) ‘politica’ del libro si saldano nel suo giudizio.
Esplicito in queste affermazioni il senso del ruolo dello storico, del suo ‘compito’ se si vuole, un ruolo identificato nell’impulso etico-politico che egli deve dare alla società del proprio tempo ancorando la ricostruzione del passato ai problemi e alle tensioni del presente. La ‘contemporaneità’ della storia viene così risolta in una missione nei confronti del presente. Nel corso della tavola rotonda sul libro in questione del giornale “L’Ora”, entrando nel merito aveva osservato: “ ci si trova di fronte a una condizione nella quale al fine di dimostrare … che un grande processo nei confronti della classe dirigente siciliana si può montare (si sostiene) che esso risale agli inizi, che questa storia ha in fondo le stesse caratteristiche di staticità … : i conquistatori sono gli stessi, e non fa differenza. Conquistatore è il Normanno, conquistatore è lo Spagnolo, conquistatore è il Napoletano”. Quella di Mack Smith è una impostazione che Giarrizzo riconduce con lucida analisi all’impostazione sicilianista elaborata dalla classe dirigente siciliana nel corso del primo novecento, così come la “immobilizzazione della storia siciliana” si sposa con il radicalismo politico dello storico inglese, “l’eredità, in definitiva, del democratismo meridionalistico che aveva bisogno di queste cose. Soltanto si tratta di vedere se nel 1970 esso ha ancora una sua validità storiografica in funzione della sua validità politica”. Poco più oltre il giudizio definitivo: il discorso è storiograficamente errato così come lo è politicamente. La conclusione non lascia adito a dubbi sul nesso che nella sua visione lega storiografia e politica: «un discorso sbagliato storicamente significa uno sbagliato presupposto per quanto riguarda l’azione politica»[13].
Non si pensi che queste affermazioni siano ‘forzature espressive’ legate al contesto giornalistico.
Nel 1966 quando al mutare della ‘congiuntura’ e politica e culturale, con l’emergere della ‘stanchezza’ di Clio, nella lezione inaugurale dell’Anno Accademico dell’Ateneo di Catania Giarrizzo osserva: «La crisi dello storicismo contemporaneo sta almeno in parte in questa difficoltà di aggiustamento psicologico e sociale dello storico al tempo suo, in una mancanza di chiarezza e di onestà per quel che riguarda la sua collocazione e la sua funzione nel mondo contemporaneo, con oscillazioni che vanno dallo storico-profeta allo storico-giullare. Dire che questo disagio è alla base di quell’assenza che lamentiamo, d’una nuova storia della Sicilia moderna, avrebbe scarso significato se non aggiungessimo che (a nostro avviso) questa verifica sul piano della storia regionale può essere chiarificatrice dei doveri e dei compiti che attendono lo storico contemporaneo». Il piano regionale viene chiamato allora a chiarire ’doveri’ e ‘compiti’ dello storico perché esauritasi l’illusione che il passato contenga le ‘soluzioni’ del presente, non per questo si è dissolta «la funzione della storia e dello storico». «Io presumo – sostiene – che lo storico è nella nostra società ancora chiamato ad un compito difficile di illuminazione e di intelligenza culturale». E per non lasciare nella genericità questa opera di ‘illuminazione’ il suo discorso si fa ‘programma’: «lo storico può – da una piattaforma ideale, bastantemente salda – guardare al passato ‘moderno’ del proprio paese, intenderlo e giudicarlo, intenderlo appunto e giudicarlo nella sua potenzialità di farsi idealmente presente, ‘contemporaneo’, cioè vivo in noi, tanto in quello che del nostro passato può costituire remora inibitrice all’azione (e di cui ci liberiamo proprio conoscendola) quanto in quello che la nostra coscienza culturale sa riconoscervi come incerto e faticoso emergere della nostra società presente». Posto a livello così alto l’asticella del ‘compito’ dello storico si comprende meglio perché ne derivi il ‘rigore’ scientifico, sia da un punto di vista diremmo etico (essere all’altezza del compito) sia dal punto di vista della qualità della ricerca chiamata a fornire al presente la conoscenza indispensabile per il suo futuro. Siamo nell’ambito della lezione di Croce, ‘liberata’ dallo storicismo assoluto. Basta rileggere il capitolo VI della Storia come pensiero e come azione perché il rapporto si faccia evidente: «La cultura storica – scrive Croce – è necessaria alla vita morale e politica, nella quale la sua assenza o deficienza è seguita da un impoverimento, da un’inclinare all’inazione …»[14]; e poco oltre ribadisce: «la cultura storica ha il fine di serbare viva la coscienza che la società umana ha del proprio passato, cioè del suo presente, cioè di se stessa, di fornirle quel che le occorre sempre per le vie da scegliere, di tenere pronto quanto per questa parte potrà giovarle in avvenire»[15].
Non si può, ribadiamolo, separare in Giarrizzo (direi forse – pur con diversità non da poco – nella sua generazione di studiosi, da Romeo a Villani, a Villari, a Galasso, per fare solo alcuni nomi) il ‘politico’ dallo ‘studioso’. Nel 1973 in modo quasi aggressivo, nel corso di una tavola rotonda sul primo volume della Storia d’Italia Einaudi, riferendosi agli intellettuali meridionali noterà che “l’unica specie sopravvissuta che meriti qualche considerazione” è “quella dell’intellettuale che ancora crede al valore dell’impegno politico”[16]. E forse la domanda da porsi oggi è se la generazione dei nostri maestri abbia prodotto proprio per questo una storiografia ‘culturalmente’ importante, cioè capace di dialogare, di confrontarsi, a volte quasi in un corpo a corpo, con la contemporaneità e dare un ruolo rilevante al mestiere e alla sua capacità di leggere la realtà.
Enrico Iachello
[1] In epigrafe al volume, dopo la dedica ai genitori, Giarrizzo scrive (e non sono frasi di circostanza): “Nel licenziare questo lavoro mi fu più presente che mai il ricordo di Benedetto Croce, nella cui ideale ispirazione esso fu concepito e fu scritto”, cfr. G. Giarrizzo, Edward Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1954, p. 7.
[2] Ivi, p. 503.
[3] G. Giarrizzo, David Hume politico e storico, Einaudi, Torino 1962, p. 10.
[4] G. Giarrizzo, Santo Mazzarino. Un maestro, in Per una storia della storiografia europea, vol. I, Bonanno, Acireale, pp. 191-249. Ora in Id., La scienza della storia. Interpreti e problemi, a cura di F. Tessitore, Liguori, Napoli 1999, pp. 551-616.
[5] G.Giarrizzo, Lo storicismo degli storici nel secondo Novecento, in M. Martirano e E. Massimilla, I percorsi dello storicismo italiano, Liguori, Napoli 2002, pp.275-292.
[6] G. Giarrizzo, Autobiografia di un vecchio storico, in «L’Acropoli», 2 marzo 2006, p. 179.
[7] Si veda F. Chabod, Croce storico, in “Rivista storica italiana, 1952, pp. $73-530, poi in Id., Lezioni di metodo storico con saggi su Egidi, Croce, Meinecke, a cura di Luigi Firpo, Laterza, Bari 1969, pp. 179-253 cui Giarrizzo fa nella sua ‘ricezione’ di Croce esplicito riferimento nel 1966 (cfr. Id., Croce e la storiografia contemporanea, in “Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafinici, Acireale 1966, pp. 21-35, ora in Id., La scienza della storia, cit., pp. 433-447).
[8] Si veda al riguardo il testo, tornato di attualità, di B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Adelphi, Milano 2017 e le preziose osservazioni di G. Galasso nella sua Nota del curatore che accompagna la riedizione citata, in particolare le pp. 87-91.
[9] A. Momigliano, L’histoire à l’âge des idéologies, in “Le Débat”, 1983/1, n. 23,
p. 129-146.
[10] Cfr. G. Giarrizzo, Moralità scientifica e folclore, in “Lo spettatore italiano”, n. 4, aprile 1954, pp. 180-184.
[11] D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari 1970. Per il dibattito giornalistico cfr. Mille anni in Sicilia, “L’Ora”, 6 aprile 1970
[12] G. Giarrizzo a L. Sciascia, Catania 9 giugno 1970, in Carte Giuseppe Giarrizzo, Archivio Storico dell’Università di Catania (non ancora inventariate).
[13] Mille anni in Sicilia, “L’Ora”, 6 aprile 1970
[14] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, con nota al testo di Gennaro Sasso, Bibliopolis Napoli 2002, p. 194
[15] Ivi, p. 195
[16] “Caratteri originali” e prospettive di analisi: ancora sulla ‘Storia d’Italia’ Einaudi, discussione, in “Quaderni storici”, 1974, 26, p. 535.
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