La fiducia nella scienza e il ruolo della Storia
di Pasquale Palmieri
In queste settimane l’epidemia di Covid-19 torna a occupare un ruolo centrale nel dibattito pubblico. Siamo nel pieno della quarta ondata, o forse della quinta. La sensazione di aver perso il conto è più che comprensibile, visto l’andamento discontinuo degli ultimi 22 mesi. Abbiamo i vaccini, uno strumento in più per frenare il contagio, ma in alcuni casi non sembrano sufficienti. Si teme infatti variante Omicron, isolata in Sudafrica, possa neutralizzare i sieri messi a punto da alcune industrie farmaceutiche. Inoltre i sistemi sanitari dei paesi dell’Unione europea, in particolar modo quello tedesco, stanno affrontando l’ennesimo sovraccarico di pazienti. Anche in Italia il numero di ricoveri cresce a vista d’occhio e continuiamo a interrogarci sulle cause della paralisi, senza trovare risposte esaustive.
I canali televisivi generalisti e i grandi quotidiani nazionali sembrano aver trovato i responsabili della crisi: gli antivaccinisti, meglio conosciuti come “no-vax”, e talvolta identificati sotto definizioni più occasionali, come “no-mask”, “no green-pass”, o semplicemente “negazionisti”. Si tratta, in buona sostanza, dei membri di movimenti antigovernativi ampi e ben organizzati in diverse aree del pianeta. Tuttavia la comprensione delle cause profonde di queste prese di posizione è ancora rapsodica. Leggiamo con frequenza articolate analisi dell’ecosistema mediatico e delle sue responsabilità, delle dinamiche psichiche o cognitive che favoriscono il rifiuto del farmaco, della diffusione dei complottismi, delle diffidenze verso il potere costituito e verso il sistema economico. Nel sovraffollamento di esperti chiamati a interpretare le miserie del nostro mondo – virologi, epidemiologi, sociologi, psicologi, antropologi, biologi e divulgatori di vario genere – gli storici occupano un ruolo ancora marginale. Talvolta vengono interpellati per raccontare qualche vecchia epidemia (da quelle del mondo antico fino alla “spagnola” del 1918-1920, passando per la celebre “peste nera” del 1348 o per la “peste manzoniana” del Seicento), ma di certo non sono autorizzati ad andare oltre: che ci piaccia o meno, la presenza della Storia sui grandi organi di informazione è utile a dirci qualcosa sul passato, ma non a decifrare il presente o il futuro.
Eppure l’epidemia avrebbe dovuto ribaltare questa prospettiva, facendoci comprendere la necessità dello sviluppo di analisi diacroniche, capaci di mettere in relazione diversi piani spazio-temporali. Per entrare più nello specifico, il Covid-19 ha intensificato tendenze già in atto da lungo tempo nel rapporto fra società e mondo scientifico. Trovandoci in un momento di grande difficoltà, sentivamo il bisogno di avere delle risposte precise, ma ci siamo confrontati con le incertezze della medicina, con informazioni contraddittorie diffuse da studiosi di chiara fama, con frequenti difficoltà nel circoscrivere i fenomeni epidemiologici e persino nella lettura dei dati. Più volte il dibattito politico si è soffermato sulla necessità di dare voce alle competenze specialistiche, ma questa crisi ci ha portato a scontrarci con l’incapacità di sviluppare un’adeguata comunicazione scientifica e, se spostiamo l’attenzione sul versante della ricezione, con una diffusa impreparazione all’ascolto del discorso scientifico. È tornata inoltre in auge la diatriba – in realtà mai esauritasi – intorno alla scienza democratica o non democratica, che ci porta ancora una volta a chiederci quale ruolo abbiano l’opinione pubblica e l’intera società civile nello sviluppo e nell’applicazione di saperi controllabili solo da un gruppo ristretto di persone.
La questione è stata già affrontata in maniera approfondita da noti studiosi, ma vale la pena di riprendere alcuni punti fondamentali dei ragionamenti sviluppati negli ultimi anni per avere un quadro concettuale sintetico e chiaro. In primo luogo, il dibattito sulla democraticità della scienza ha una chiara identità politica. Per affrontarlo, dobbiamo cercare di fuggire dall’idea caricaturale di democrazia che ormai domina il nostro spazio pubblico, accostando la sovranità popolare a una “rissa da bar dove vince chi ha la voce più forte”: il nostro corpo sociale non è fatalmente ostaggio di una maggioranza prepotente e chiassosa, incline a imporre i suoi punti di vista in assenza di qualsiasi regola condivisa[1]. La democrazia è innanzi tutto un metodo, in base al quale una comunità riesce a prendere decisioni. Ci sono delle norme condivise, che garantiscono il rispetto delle minoranze etniche e linguistiche, delle scelte religiose e culturali degli individui, degli orientamenti sessuali, del diritto allo studio e alla salute. Gli spazi di azione della maggioranza hanno dei limiti precisi, che in genere sono assicurati dai princìpi costituzionali e delle leggi vigenti all’interno di un sistema democratico.
Non bisogna quindi stupirsi del fatto che i cittadini esprimano il loro bisogno di conoscenza e, pur non essendo esperti, desiderino aver voce nelle scelte sanitarie che hanno conseguenze sulla vita comune. Gli storici dovrebbero essere in grado di spiegare, forse meglio di chiunque altro, che la scienza ha l’obiettivo precipuo di raggiungere un consenso libero e razionale di opinione. In una fase di indagine che per convenzione possiamo definire “privata”, l’interrogazione della natura viene infatti portata avanti da un singolo scienziato o da un gruppo di scienziati. I risultati di quella stessa indagine, tuttavia, assumono una piena valenza scientifica solo quando diventano pubblici e sono sottoposti all’analisi critica di una comunità più ampia che è in primo luogo accademica o specialistica, ma poi diventa necessariamente anche politica. I metodi di lavoro possono essere diversi a seconda dei contesti, ma chi pratica la scienza non può compiere azioni o prendere decisioni autoreferenziali, incuranti dell’opinione di altri esperti e, sia pur in un secondo momento, dell’intera collettività.
Guardando a emergenze come l’epidemia di Covid-19, siamo dunque chiamati ad analizzare il rapporto fra scienza e società focalizzando l’attenzione sui diversi momenti che caratterizzano i processi decisionali, facendo ricorso ad alcuni concetti chiave del diritto. Per operare una “valutazione del rischio” non si può far affidamento sulle opinioni della maggioranza, ma ci si deve rivolgere necessariamente al parere esclusivo della comunità scientifica. Ma gli equilibri devono necessariamente cambiare per la “gestione del rischio”. In quel caso gli scienziati conservano solo una funzione consultiva: non possono monopolizzare decisioni che hanno ricadute sociali e che devono essere responsabilità della politica. Queste dinamiche si riflettono in maniera diretta sulla questione vaccinale. Le considerazioni sull’efficacia dei vaccini per la riduzione del contagio rientrano nella valutazione del rischio e competono alla scienza. Quando si tratta invece di applicare la strategia della raccomandazione, è la comunità a dover essere coinvolta nella sua interezza attraverso un’informazione scrupolosa.
Assodate quindi le responsabilità delle istituzioni e dell’intera società sullo sviluppo dei saperi specialistici, restano da chiarire le ragioni di una così diffusa sfiducia nel discorso scientifico. E si tratta, con ogni evidenza, di una questione politica e culturale che ha delle radici profonde. Un ruolo importante è stato giocato sicuramente dall’insegnamento scolastico e, più in particolare, dall’idea di scienza veicolata da discipline umanistiche come la Storia, insieme alla Filosofia e alla Letteratura. Sfogliando le pagine dei libri di testo – i cosiddetti “manuali” – si possono intravedere delle evidenti carenze, che spesso favoriscono irreparabili fraintendimenti. Oltre a essere tendenzialmente ancora eurocentrico, lo sviluppo della scienza è descritto come un incessante cammino che ha condotto l’umanità a uscire dalle tenebre della superstizione per approdare al trionfo della razionalità[2].
Non si tiene in sufficiente considerazione la complessità di un dibattito scientifico che ha vissuto spesso di frenate, negoziazioni, compromessi e talvolta di forzati arretramenti, rinnegando i risultati raggiunti o, più di frequente, scoprendone l’invalidità solo dopo intervalli temporali enormi. Le trasformazioni che interessano le indagini sulla natura, inoltre, risultano spesso slegate dai contesti di riferimento: di conseguenza, gli studenti hanno molte difficoltà a collocare l’azione di individui, gruppi o istituzioni all’interno di dinamiche più ampie, comprendendone a tutto tondo le valenze sociali, politiche, religiosi, economiche, morali e culturali. Ne consegue una frequente confusione fra avanzamento tecnologico e progresso scientifico.
Si dimentica, in buona sostanza, che la scienza è una modalità di indagine, un punto di vista sulla realtà che diventa legittimo attraverso la definizione di criteri condivisi. È certamente vero, ad esempio, che alcuni regimi totalitari del passato hanno consentito la messa a punto di dispositivi avveniristici o sorprendenti, ma non è per questo scontato che quelle scoperte siano avvenute nel rispetto di norme che la società del tempo riconosceva come “scientifiche”. I “progressi” della scienza vengono, in ultimo, rappresentati come conquiste di singole personalità che acquisiscono – nelle ricostruzioni proposte dagli autori dei libri scolastici – contorni eroici: appaiono a tutti gli effetti come santi laici capaci di resistere ai pregiudizi del loro tempo e di innalzare la loro voce al di sopra di un contesto sociale dominato da fanatismo e oscurità. A farne le spese è la comprensione delle condizioni storiche concrete che consentono a un ragionamento scientifico di affermarsi come tale e di avere maggiore credito rispetto ai discorsi concorrenti. Ancora più frequenti sono le gallerie di invenzioni e innovazioni nel campo della tecnica, che appaiono come eredità visibili di intuizioni geniali e per certi versi irripetibili. Le ricerche degli ultimi anni hanno sottolineato il ruolo di diversi attori sociali nel progresso di alcuni saperi specialistici, come ad esempio gli artigiani per gli apparati industriali o i contadini per l’agronomia, ma questi fenomeni godono di uno spazio tutto sommato marginale sui libri di testo. In definitiva, possiamo affermare con buone ragioni che i capitoli sulla scienza e sulle “rivoluzioni” scientifiche somigliano ancora troppo spesso ad album di figurine, dove contano prima di tutto le individualità, mentre i procedimenti rimangono inesorabilmente sullo sfondo.
Un altro nodo sul quale il dibattitto pubblico si concentra senza affidare il giusto ruolo all’analisi storica è quello riguardante le ansie cospirazioniste, che non sono certo un’invenzione del nostro tempo. Sono invece riapparse in diverse epoche e in diversi contesti geopolitici, rivelando in ciascuna occasione delle sfumature inedite. Per spiegarle, gli studiosi hanno fatto spesso ricorso a concetti universalizzanti come la “paranoia” o la “nevrosi collettiva”, che tuttavia stentano a far emergere le peculiarità dei singoli casi. Di fatto, l’esplorazione delle “oscure profondità dell’animo umano” non è sufficiente a comprendere il fenomeno. Non siamo di fronte a una “ripetizione meccanica della fallacia percettiva” delle masse, descrivibile con formule atemporali[3]. La fede nei complottismi ha invece una sua storicità: è il frutto di una prassi comunicativa che riesce volta in volta a trasformarsi in strumento di lotta politica, dando voce ai sospetti e ai timori circolanti nella popolazione, orientandoli verso obiettivi precisi.
Questi spunti metodologici ci tornano utili proprio nell’analisi di alcuni risvolti dell’epidemia di Covid-19. La straripante avanzata della fantasia cospirativa denominata QAnon, ad esempio, ha avuto luogo proprio nei mesi della diffusione del contagio ed è stata favorita dalla reclusione forzata. Non si può certo negare che l’emergenza abbia contribuito ad aumentare le disuguaglianze sociali, palesando una situazione insostenibile per molti cittadini e screditando i messaggi di unità diffusi dai poteri costituiti. Si tratta di un fenomeno complesso che sfugge da qualsiasi spiegazione semplificante e che ha trovato nei racconti di QAnon un’efficace via di espressione. Il loro potere persuasivo è trasversale sul piano sociale, generazionale e culturale. Secondo recenti indagini statistiche, il 16% degli americani reputa quelle narrazioni “in gran parte vere” (“mostly true”)[4]. Si tratta di circa 52 milioni di persone, senza considerare che tanti altri le ritengono parzialmente vere o verosimili: un numero di seguaci più che sufficiente per far fallire qualsiasi campagna vaccinale, trasformando la protezione collettiva in un miraggio.
Le incertezze economiche e sanitarie, in definitiva, si sono velocemente tradotte in sguardi angosciati verso il futuro, offrendo maggiore credito alla ricerca di occulti responsabili contro i quali dirigere la rabbia sociale. È infatti facile deridere chi ritiene che Tom Hanks, Céline Dion, Oprah Winfrey e Beyoncé siano complici di un progetto demoniaco ai danni dell’umanità. Meno agevole e meno consolatorio è ammettere che i governi, le agenzie internazionali e i sistemi di organizzazione del sapere (università, istituti di ricerca pubblici e privati) si sono mostrati incapaci di affrontare l’epidemia: non esiste una strategia chiara e condivisa per fronteggiarla, né su un piano delle singole nazioni né su quello di una collaborazione di scala planetaria[5]. Mentre la politica e l’economia sembrano ancora legate al concetto di confine e interesse territoriale, il virus non conosce barriere nella sua diffusione. Inoltre è utile sottolineare, anche se dovrebbe essere ormai scontato, che la distribuzione non omogenea dei vaccini mette a repentaglio il raggiungimento di quello che dovrebbe essere l’unico obiettivo comune: l’immunità globale[6]. È di fatto miope garantire ad alcune aree una completa copertura, mentre altre rimangono a secco[7].
Alla luce di queste considerazioni, la diffidenza odierna verso il mondo della scienza dovrebbe risultare più spiegabile, almeno in parte. Abbiamo spesso attribuito a internet o ai social networks una responsabilità importante nel cambiamento degli atteggiamenti collettivi nei confronti dei saperi specialistici prodotti in ambiti istituzionali o accademici. Dimentichiamo in tal modo le trasformazioni culturali più profonde che attraversano la nostra società e che vengono solo rese più visibili dalle piattaforme di condivisione messe a nostra disposizione dalla tecnologia. In definitiva, ci sfugge uno dei temi più ingombranti da affrontare: la centralità che la nostra civiltà assegna all’individuo si riflette sull’immagine acquisita dalla scienza nel “senso comune”, nonché sull’idea caricaturale di democrazia che ormai tendiamo ad accogliere senza opporre sostanziali obiezioni (quella della maggioranza aggressiva e vincente, per intenderci).
L’equivoco di fondo dal quale dobbiamo difenderci è proprio quello che assegna alla scienza una dimensione eccezionale, individualistica, a tratti solipsistica, legata a interessi particolari. Gli studiosi non vivono in questo universo immaginario o in un dorato isolamento, ma sono al contrario impegnati in necessarie attività di condivisione e confronto, che scandiscono il cammino verso scoperte più o meno rilevanti. Sono parte integrante di una comunità, nella quale talvolta i passi piccoli di numerosi ricercatori riescono a porre le basi per le grandi intuizioni dei singoli. Devono sottoporre i loro risultati a un costante controllo pubblico, nel rispetto di regole che sono state sottoscritte e accettate da tutti: il “consenso scientifico” non può muoversi sul piano dell’individualità, né insistere su campi ristretti.
La scienza deve essere quindi democratica, vale a dire compatibile con i principi della democrazia, perché si configura come una comunità nella comunità. Se vogliamo ricostruire una fiducia diffusa nel sapere scientifico, dobbiamo inevitabilmente ripartire da questi presupposti e ripensare i percorsi di formazione scolastici, intensificando la relazione fra educazione civica, storia, filosofia, letteratura e discipline scientifiche. Dobbiamo scalfire la declinazione individualistica del progresso scientifico che ancora oggi caratterizza i libri di testo e far emergere l’importanza dei sistemi e dei contesti nella trasformazione (non solo nei progressi, ma anche nelle frenate e nei regressi) del sapere. Siamo ormai assuefatti a un atteggiamento che accomuna diverse componenti della nostra società, dai governi ai media: si chiede alla popolazione di avere fiducia in una scienza rappresentata da persone che hanno un nome e un cognome, indicate come modelli incontrovertibili e infallibili, ma che talvolta si mostrano disattente, incerte o imprudenti, anche sul piano puramente comunicativo. Si chiede in altre parole ai cittadini di obbedire a un’autorità, negando di fatto uno dei principi costitutivi dello sviluppo del sapere scientifico, che è per sua stessa natura fondato sulla costante messa in discussione di dogmi e conoscenze acquisite.
Bisogna dunque evitare le scorciatoie e riaffermare con convinzione il valore dell’indagine scientifica come patrimonio di tutti, come sapere condiviso che non teme il dibattito pubblico, ma al contrario ne ha bisogno. Chi fa ricerca deve saper innescare impulsi partecipativi a tutti i livelli: il confronto fra esperti è solo una prima fase di un processo più ampio, che porta all’incontro successivo con la collettività. Quest’ultima non può essere soltanto istruita, ma deve essere responsabilizzata e coinvolta nelle decisioni, sulla base di una conoscenza esaustiva dei rischi e delle possibili soluzioni. Avere fiducia in un vaccino, in definitiva, non significa dar credito a un individuo o a un’azienda, ma a un metodo, a una comunità ampia e transnazionale che si muove sulla base di regole ben definite, a diversi esperti che lavorano in enti di controllo, che si sorvegliano a vicenda e che coprono tutti insieme ruoli di cruciale importanza per la vita pubblica, facendo in modo che l’interesse della comunità venga prima dell’interesse dei singoli. Se vogliamo costruire certezze intorno a un vaccino, in ultima analisi, dobbiamo necessariamente ricostruire la fiducia nelle istituzioni e credere nella democrazia.
(Alcuni temi sviluppati in questo editoriale sono stati già oggetto di analisi pubblicate su “Doppiozero” in diversi articoli. Ringrazio dunque questa testata per avermi concesso il diritto di riutilizzarle e rielaborarle, anche alla luce degli ultimi eventi legati all’epidemia di Covid-19).
1 dicembre 2021
[1] https://www.scienzainrete.it/articolo/scienza-e-%2525C3%2525A8-democrazia/pietro-greco/2017-11-24
[2] Ho avuto già modo di sviluppare questi temi, in maniera più articolata, in https://www.doppiozero.com/materiali/vaccini-dati-scientifici-e-decisioni-politiche
[3] Si veda, anche per ulteriori approfondimenti bibliografici, il recente e ricco volume di Ignazio Veca, La congiura immaginata. Opinione pubblica e accuse di complotto nella Roma dell’Ottocento, Carocci 2019.
[4] https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-1/2020/09/18/mondo-qanon-seconda-parte
[5] https://www.dinamopress.it/news/verso-la-quarta-ondata-di-covid-19-cosa-ci-aspetta/
[6] https://www.doppiozero.com/materiali/le-incertezze-dei-vaccini
[7] https://www.doppiozero.com/materiali/i-vaccini-dei-vip