S. Villani, Making Italy Anglican: Why the Book of Common Prayer Was Translated into Italian

Oxford University Press

p. 320

A partire dalla prima traduzione manoscritta del Book of Common Prayer fatta a Venezia nel 1608 dal cappellano dell’ambasciatore inglese con la collaborazione di Paolo Sarpi, per quasi trecento anni, in forme diverse e mutevoli, vi fu chi in Inghilterra ritenne che la diffusione in italiano del testo liturgico della Chiesa d’Inghilterra potesse agire da detonatore per un cambiamento radicale del panorama politico e religioso in Italia.  Con la sua traduzione si voleva presentare quel testo alle élites religiose e politiche italiane nella convinzione che la liturgia inglese incarnasse in sé l’essenza della Chiesa d’Inghilterra. La bellezza, l’armonia, la semplicità del testo liturgico inglese dimostravano infatti come quella Chiesa fosse la più vicina al modello apostolico. Si voleva così presentare la Chiesa d’Inghilterra come modello esemplare da seguire per separarsi dalla Chiesa di Roma o per riformarla dall’interno. Il filo rosso che percorre le diverse reincarnazioni di questo progetto, specialmente a inizio Seicento e nell’Ottocento, è l’idea di promuovere una riforma dall’alto. Si tratta quindi di una storia eminentemente politica che ha al suo centro la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa e tra Inghilterra e Italia. La storia, per l’appunto, non solo di una mancata conversione ma anche quella di una mancata conquista.