Gentili colleghe e colleghi,
il silenzio seguito in questa lista all’annuncio del nostro Presidente della
morte di Brunello Vigezzi mi conferma nella convinzione che negli anni avevo
maturato, sulla relativa estraneità dello stesso al mondo della modernistica
italiana.
Pur avendo insegnato – da ordinario – per ben 34 anni Storia moderna presso
l’Ateneo milanese, Vigezzi era percepito, da molti colleghi (milanesi e non) e
pure da molti studenti, come un docente di storia contemporanea. E d’altronde
numerosi furono negli anni Settanta e Ottanta i corsi da lui dedicati ai temi
classici della sua produzione di storico (ricordo a puro titolo d’esempio L’Europa
dal 1848 al 1870 e le origini della politica estera italiana o Le
origini della Prima Guerra Mondiale. L’eredità dell’Antico Regime e la svolta
del 1914).
Eppure anche i temi a lui più familiari si presentavano nei suoi corsi
innervati – non solo da un’attenzione fortissima alla storia della storiografia
e da una cura quasi maniacale all’analisi diretta delle fonti – ma anche da una
visione di lungo (se non lunghissimo) periodo che dava alle sue lezioni una
profondità storica che legava sempre la storia italiana ed europea
dell’Otto-Novecento alla prima e piena modernità.
I suoi corsi degli ultimi dieci anni d’attività (a puro titolo d’esempio “Primato”
e “decadenza” dell’Europa. Aspetti e problemi dagli inizi dell’età
moderna alla prima guerra mondiale; oppure Imperi e imperialismi
in Europa dagli inizi dell’età moderna alla prima guerra mondiale,
infine Dagli inizi dell’espansione europea all’imperialismo del XIX e
XX secolo. Problemi e interpretazioni) erano così un confronto continuo
con i significati storici e storiografici della modernità (non solo europea).
Spesso in (amichevole) polemica con gli altri modernisti milanesi (quasi tutti
di scuola berenghiana), Vigezzi imponeva ai suoi studenti (con loro evidente
sofferenza…) la preparazione del manuale dal 1492 al 1918, perché solo alla
fine del primo conflitto mondiale si poteva parlare per lui di fine dell’età
moderna, ma ugualmente solo inserendo pienamente nella modernità i problemi
dell’Europa dell’ascesa imperiale e imperialistica e poi della crisi
postbellica si poteva incominciare a capire qualcosa.
Negli ultimi anni il crescente interesse di Vigezzi per la storia delle
relazioni internazionali (nella sua complessa relazione con la teoria) lo
spinse a lavorare su fonti assai diverse da quella della sua classica
produzione di storico, spingendosi a letture inedite dei grandi viaggiatori
medioevali e moderni (ricordo un corso su Marco Polo e su Ibn Battuta, su
Carletti e su Bernier), ma pure alla rilettura critica di classici come
Voltaire, Montesquieu, Roberston o Ranke.
Proprio il graduale passaggio maturato a partire dagli anni Novanta dagli studi
sulla politica estera (italiana ed europea) ai lavori sulla storia delle
relazioni internazionali costringeva Vigezzi a riprendere – da altri punti di
vista – un problema centrale per il suo storicismo critico. In che modo si
poteva parlare ancora di “periodizzazione”? Le grandi successioni
tradizionali, della storia antica, medioevale, moderna e contemporanea, che
valore conservano nel mondo globalizzato? Da lì partivano i continui richiami
nei suoi corsi e nei suoi lavori all’uso critico di categorie come quelle di
continuità e discontinuità, di breve e di lungo periodo, di mutamento, di
progresso e – soprattutto – di “svolgimento” storico.
Che cos’è ‘storia’ se non svolgimento, una dimensione in cui si saldano il
concreto corso delle vicende e la ricostruzione che se ne dà, in cui si realizza
il nesso effettivo fra le situazioni, i fatti e le opinioni in una prospettiva
che tende a saldare continuità e differenze? Che cos’è la storia delle
relazioni internazionali se non una storia ‘speciale’, che è però impossibile
concepire slegata da uno svolgimento più ampio, percorsa com’è dal bisogno di
padroneggiare un senso generale (non provvidenzialistico) della storia e dalla
costante esigenza, entro questo svolgimento, di storicizzare sempre i suoi
esiti?
Questo l’ultimo Vigezzi, che cerca un nesso decisivo fra politica e
storiografia, fra storia e teoria, fra fatti e idee, fra esperienza e valori
dentro e fuori le periodizzazioni tradizionali. Ma sempre con il bisogno di
«guardare largo», di pensare secondo prospettive di lungo periodo (almeno dal
Medioevo, quel Medioevo da cui venivano per formazione tanti degli storici
italiani fra le due guerre e quindi anche i suoi maestri…), l’abitudine a
frequentare i classici, fossero il Ranke e la sua scuola, fossero gli antichi
(da Tucidide ad Erodoto)
Insomma un modernista fuori dagli schemi e anche per questo forse, un po’
anomalo.
Silvia M. Pizzetti
Dipartimento di Studi Storici
Università degli studi di Milano
Università degli studi di Milano