“Il Congresso di Vienna: proposte di studio e percorsi di ricerca” – Vittorio Criscuolo – Università degli Studi di Milano

Superate le critiche ottocentesche al Congresso di Vienna per avere ignorato le istanze di libertà e il sentimento nazionale maturati in larghi strati della società europea, la storiografia ha riconosciuto nel testo firmato il 9 giugno 1815 l’atto di nascita di un nuovo ordine mondiale, fondato sul cosiddetto “concerto europeo”, ovvero su un sistema di consultazioni stabili e costanti fra le maggiori potenze. In tal senso si possono considerare emblematiche le tesi svolte dallo storico americano Paul W. Schroeder nel libro The Transformation of European Politics 1763-1848 (1996). In seguito ulteriori elementi di riflessione e di approfondimento sono venuti da alcune ottime biografie dei principali protagonisti del congresso (su Talleyrand Emmanuel de Waresquiel, 2006; su Alessandro primo Marie-Pierre Rey, 2009; su Castlereagh John Bew, 2012; su Metternich Luigi Mascilli Migliorini, 2014 e Wolfram Siemann, 2016) e dalle numerose iniziative (studi e edizioni di fonti, convegni, mostre, dibattiti e documentari) promosse in vista o in occasione delle celebrazioni del Bicentenario.

Da questa messe di studi, fra i quali segnaliamo il libro di Mark Jarrett The Congress of Vienna and its Legacy (2013), è emersa innanzitutto l’esigenza di un ampliamento delle fonti al di là del repertorio tradizionale costituito dai documenti ufficiali, dalla vastissima memorialistica, dalla corrispondenza pubblica e privata. In effetti la crescente importanza della pubblica opinione obbligò anche i diplomatici di formazione tradizionale a cercarne con ogni mezzo il sostegno e il consenso, utilizzando un nuovo linguaggio e pratiche politico-culturali in grado di raggiungere strati più ampi della popolazione. Di qui l’importanza di un’analisi a largo raggio della stampa e della pubblicistica, come pure degli aspetti simbolici e propagandistici delle cerimonie civili e religiose, delle feste e delle manifestazioni pubbliche organizzate durante il congresso. Anche nel mondo dei salotti e delle relazioni mondane, considerato in una luce nuova, non più come cornice coreografica dell’attività diplomatica, sono state studiate molte personalità di secondo piano che ebbero comunque un ruolo, sia pure in via indiretta e mediata, sugli sviluppi del congresso; al riguardo un contributo molto importante è venuto anche dalla storia di genere.

Una revisione della considerazione tradizionale è stata avviata da numerosi lavori che, in linea con i criteri della world history, hanno studiato il congresso in una prospettiva globale, dedicando particolare attenzione alle questioni relative alle colonie e al continente americano che, pur non essendo formalmente oggetto dei lavori, ebbero comunque un peso significativo sul loro svolgimento. Molta attenzione è stata prestata anche all’abolizione della tratta degli schiavi, un aspetto del congresso a lungo considerato marginale.

Fra le tematiche che la storiografia non ha finora studiato a sufficienza e in maniera esauriente si segnala la questione della religione, legata soprattutto alla necessità di regolare i delicati problemi di coesistenza fra diverse confessioni provocati dalla ridefinizione dei confini e degli assetti interni degli stati. Molto resta da fare ad esempio per approfondire il processo di ricostruzione della chiesa cattolica tedesca dopo il fallimento del tentativo del Consalvi di negoziare un concordato unico.

In un importante libro uscito nel 2014 (The Congress of Vienna. Power and Politics after Napoleon) Brian Vick ha ricordato opportunamente che l’Atto finale, lungi dal rappresentare una sistemazione definitiva del quadro politico europeo, fu un compromesso provvisorio, soggetto negli anni seguenti a molteplici verifiche, aggiustamenti e modifiche. A nostro parere questa indicazione di ricerca può essere realmente feconda solo se si analizza l’opera del congresso in una prospettiva più ampia, non legata al solo piano politico-diplomatico, ma estesa a tutta la realtà culturale-sociale dell’età della Restaurazione. In questo quadro appaiono evidenti i limiti intrinseci del concetto di ordine e di equilibrio al quale si ispirarono i diplomatici viennesi. Ad esempio ci sembra eccessivo il giudizio di quanti hanno parlato, a proposito della moderazione dimostrata dal congresso di fronte ai problemi religiosi, di posizioni “liberali”: si trattò per lo più di compromessi volti a prevenire possibili conflitti, di accomodamenti pragmatici, che proprio la mancanza di una sincera affermazione del principio di tolleranza indebolì e spesso vanificò. Significativo in tal senso il caso degli ebrei, rispetto al quale le deludenti formule dello statuto del Deutscher Bund furono la premessa per un rapido riemergere nelle classi dirigenti e nella società degli impulsi antisemiti. Un discorso analogo vale per l’atteggiamento dei diplomatici di Vienna rispetto alle istanze costituzionali e liberali. Al riguardo molti giudizi sulle radici illuministiche della formazione di Metternich e sulle presunte aperture della sua politica vanno opportunamente sfumati: ad esempio è impossibile considerare organi rappresentativi di autogoverno le congregazioni centrali e provinciali istituite nel Regno Lombardo-Veneto, che erano in realtà istituzioni a base cetuale in linea con l’antico regime e prive di una reale autonomia. Il sistema creato per garantire la pace risultò in definitiva asfittico proprio perché presupponeva la negazione di ogni istanza liberale. Lo stesso Castlereagh, ben prima della svolta impressa alla politica estera da Canning, dovette prendere le distanze dalla deriva reazionaria della politica di Metternich, evidentemente incompatibile con i fondamenti del sistema costituzionale inglese: proprio su questo scoglio naufragò il sistema dei congressi.

In un momento in cui le relazioni internazionali sembrano essere cadute in uno stato di pressoché totale anarchia, è naturale che si tenda a rivalutare, come già accadde fra le due guerre mondiali, la capacità dei diplomatici di Vienna di garantire la stabilità della politica mondiale e il senso dell’Europa che animò molti di essi, e che diede uno dei suoi frutti più duraturi nella regolamentazione della navigazione fluviale. Tuttavia non va dimenticata la matrice angustamente conservatrice, e in qualche caso palesemente reazionaria, del concetto di ordine e di pace che ispirò la loro politica. Castlereagh perseguì l’obiettivo di un solido equilibrio continentale allo scopo di prevenire una ripresa dell’espansionismo francese, e lasciò di fatto mano libera al progetto delle monarchie assolute di ripristinare gli assetti politici e le gerarchie sociali dell’antico regime. Sennonché la Francia nel XIX secolo sconvolse ripetutamente la pace europea non con la sua politica estera, bensì ponendosi come punto di riferimento dei movimenti nazionali e liberali. Gli studi che si preannunziano in vista del prossimo bicentenario dei moti del 1820-1821 potranno essere in tal senso un’utile occasione di approfondimento e di riflessione.